Mille attività artigianali perse in quarant’anni

Il segretario Gianni De Checchi ricorda categorie ormai scomparse per sempre e attacca: «Una generazione di residenti si è fatta scappare di mano la città»
Di Manuela Pivato

E se succedesse oggi? Se un’altra acqua mostruosamente grande inghiottisse la città come quarant’anni fa? In molti ne patirebbero molto, ma gli artigiani un po’ meno degli altri; e non perchè siano diventati impermeabili, ma perchè in quattro decenni hanno perso migliaia di botteghe.

Il segretario di Confartigianato Gianni De Checchi ha preso spunto dalla presentazione della mostra fotografica della Municipalità che aprirà sabato in Sala San Leonardo per restituire l’immagine di un’altra alluvione, questa volta asciutta, subdola e molto più pericolosa, che anno dopo anno, a sirene inascoltate, ha eroso non i mattoni ma la popolazione.

«Nel 1966 le imprese artigiane che lavoravano a Venezia erano 2.800 mentre oggi sono 1.800» ha spiegato De Checchi «e le categorie sono passate da trentotto a una ventina». Nell’indifferenza e nell’incuria si sono persi così mestieri che sembrano usciti dalle pagine di Dickens: l’inamidatore di colletti, il materassaio, il salatore di pesce, la cucitrice di berretti, quello che faceva corde solo per gli strumenti musicali.

«Rispetto ad allora la città è sideralmente cambiata» ha continuato il segretario di Confartigianato «e una generazione, nella quale mi ci metto anch’io, si è fatta scappare di mano questa città. Non credo sia stata colpa di una certa amministrazione o di un certo politico anche se indubbiamente hanno fatto la loro parte. Credo invece che la situazione in cui ci troviamo sia responsabilità di una generazione, quindi di molti, se non di tutti».

«Chi affitta il proprio negozio a un cinese non è il sindaco, bensì un veneziano» ha aggiunto «chi affitta l’appartamento ai turisti non è un assessore, è un veneziano. Ciascuno ha fatto il proprio pezzetto e siamo arrivati alla situazione di oggi».

De Checchi ha ricordato il danno che gli artigiani subirono nel 1966. Il conto, scritto con la penna rossa, aggiornato, cresciuto a dismisura man mano che passavano i giorni e rimasto negli archivi di Confartigianato, fu di 3 milioni e 750 mila lire - una cifra per l’epoca quasi incalcolabile - che sommava la quantità immensa di materie prime come il legno, la farina, il ferro, ma anche le valvole e qualsiasi cosa servisse per la loro attività che era finita sott’acqua e che era diventata inservibile.

«Quarant’anni fa l’artigianato pagò un tributo molto alto; ci fu una richiesta di rimborso danni ormai diventata mitologica perchè non arrivò niente» ha detto ancora De Checchi «oggi il prezzo sarebbe considerevole per i bar e gli alberghi ma non per noi, perchè ci siamo molto asciugati numericamente».

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