La peste e il ringraziamento cinque lunghi secoli di storia
VENEZIA, È nella seconda metà del Cinquecento che la Festa del Redentore trae le origini, quando Venezia venne colpita dalla peste e in segno di voto il governo della Serenissima ordinò di erigere un tempio dedicato al Redentore. Una storia lontana ma ricordata ogni anno in una tradizione che si protrae da secoli e che risplende nello spettacolo di fuochi artificiali che illumina il Bacino di San Marco la notte del terzo sabato di luglio. Venezia era una città regina del commercio, le sue navi svolgevano un ruolo fondamentale nell’Adriatico e non solo, facendo la spola tra numerosi Paesi con scambi di tessuti, spezie e prodotti pregiati.
Da qui probabilmente si deve l’innesco della pestilenza che nel 1575 colpì la città lagunare, provocando complessivamente oltre 50 mila vittime solo in centro storico, senza guardare in faccia al ceto sociale e al portafogli di chi colpiva e costringeva a morte pressoché sicura. Due anni di autentico terrore per la Serenissima e i suoi cittadini, per un male che all’epoca si riteneva avesse origini divine, quale punizione per la gente, e malattia dalla quale non c’era quasi scampo. Una situazione che portò il governo della città a valutare la situazione e ordinare all’allora Doge Alvise Mocenigo di impegnarsi per erigere un tempio in cambio della “guarigione” di Venezia dall’attacco della peste. Fu infatti per ordine del Senato veneziano, in data 4 settembre 1576, che lo stesso Doge fece un voto solenne per invocare la fine del male, e così si pensò di dedicare il tempio al Redentore, individuandone la collocazione sull’isola della Giudecca.
Un tempio che le generazioni future avrebbero dovuto visitare ogni anno a partire dalla sua costruzione, in segno di ringraziamento per la liberazione della città dalla malattia. In due anni, infatti, il flagello rappresentato dalla peste provocò la morte di più di un terzo della popolazione. Alla fine della pestilenza, il 3 maggio del 1577, i cittadini poterono finalmente tirare un sospiro di sollievo: la battaglia era stata vinta, e il 13 luglio si decise organizzare una grande festa collegata alla posa della prima pietra del tempio da costruire alla Giudecca, isola che sarebbe stata rag-giunta con la costruzione temporanea di un ponte votivo. Una tradizione che quindi si ripete nel dettaglio così come era stata voluta dalla Serenissima cinque secoli fa. Il collegamento alla terza domenica di luglio è dovuto a un annuncio, quello che nel 1577 fece il Doge Sebastiano Venier, per la liberazione certa dalla peste, andando in pochi giorni a realizzare una prima chiesa in legno per farne il punto di riferimento del pellegrinaggio religioso e di ringraziamento, attraversando il ponte di barche realizzato già per quella prima occasione. Alla costruzione del tempio venne incaricato l’architetto Andrea Palladio ma ci vollero 15 anni prima che l’edificio potesse essere consacrato e aperto alla popolazione. Tanto che nel frattempo il Palladio morì, lasciando ad altri il completamento della chiesa, avvenuto nel 1592.
Quel voto del Doge Alvise Mocenigo non è stato dimenticato, anche se la festa è stata arricchita di aspetti che vanno oltre il ringraziamento alla divinità per la liberazione dalla peste. Oggi le cerimonie religiose si ripetono, ma in tanti vedono nella Festa del Redentore uno degli appuntamenti più attesi dell’anno, per le regate dei campioni, per viverlo soprattutto in barca ammirando i “foghi”, oppure seduti sulle fondamenta o nelle altane.
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