Il lungo abbraccio dopo settant’anni tra i Marcello e Cohen
Si sono rivisti dopo settant’anni e subito riconosciuti, anche se il tempo aveva lavorato a lungo sulle loro facce e nessuno dei due avrebbe giurato di possedere ancora qualcosa della propria adolescenza. Più forte del tempo è stato, invece, l’affetto reciproco e quel lampo nello sguardo grazie al quale l’uno si è buttato tra le braccia dell’altro sapendo di non sbagliare.
L’abbraccio all’imbarcadero di Sant’Angelo tra Girolamo Marcello e Milan Cohen, entrambi ragazzini a Fontanelle durante la guerra, il secondo vivo grazie al padre del primo, ha stretto non solo due uomini ma due famiglie, riunite ieri a Venezia per la consegna alla memoria del conte Alessandro Marcello (1894-1980) dell’onorificenza di “Giusto tra le Nazioni”, tributata dall’Istituto per la Memoria dei Martiri e degli Eroi dell’Olocausto Yad Vashem.
Tra gli affreschi e gli specchi dorati di Palazzo Marcello, sotto i lampadari e davanti ai ritratti degli avi, i cinque figli (oltre a Girolamo, Loredana, Giuseppe, Umberto e Marina), i dodici nipoti e i ventiquattro bisnipoti, in un dipinto vivant che sarebbe piaciuto a Pietro Longhi, la storia dei popoli è diventata storia privata e poi di nuovo storia dei popoli nelle parole dell’Ambasciatore di Israele in Italia, Gilon Naor, che ha sottolineato l’importanza di mantenere vivo il ricordo delle persecuzionie e degli atti di coraggio.
Ritto come un fuso, lucido come se la guerra fosse finita ieri, Milan Cohen, nome di finzione “Emilio”, quasi novantenne, ha raccontato di quel destino che lo fece arrivare a Fontanelle, lui giovanissimo ebreo di Banja Luka in fuga, dove fu accolto e protetto come uno dei numerosi figli da Alessandro e Marisa Marcello nella villa occupata dai tedeschi.
«Un giorno mio padre mi disse di portare una damigiana di vino ai tedeschi per festeggiare il mio compleanno», ha raccontato Girolamo, «solo che non era il mio compleanno. Era uno stratagemma ideato da mio padre per far ubriacare i soldati in modo da permetterci di poter scaricare le armi che stavano per arrivare».
Ecco. Cose così. Cose come le raccomandazioni della madre ai figli affinché giocassero con “Emilio” come se fosse un loro amico da sempre, in modo che i tedeschi non sospettassero nulla. Cose fatte con il terrore di essere scoperti ogni minuto, con l’angoscia di non vedere il giorno a venire ma anche con l’orgoglio, crediamo immenso, di fare la cosa giusta.
Passata dalla sfera privata a quella pubblica, la storia di “Emilio” si è caricata negli anni di molti significati, è stata spiegata dai figli ai propri figli e poi ai figli dei figli, ieri gli uni vicini agli altri, le fiere nobildonne e i ragazzini di casa, tutti intorno alle parole di “Emilio” che ne avrebbe avute da raccontare per un mese e non per un’ora.
Oltre all’ambasciatore, anche il presidente della Comunità ebraica Paolo Gnignati, il rabbino capo Scialom Bahbout, il sindaco di Fontanelle, la presidente del Consiglio Comunale di Venezia, il parroco di San Moisè don Roberto e Antonio Spinelli, lo storico padovano che ha raccontato i fatti accaduti nel libro “Vite in fuga”.
«La memoria di questi avvenimenti ci deve spingere verso la comprensione e l’accettazione degli altri», ha detto il rabbino capo.
Come fece Alessandro Marcello che, salvando molte vite, ha lasciato a chi è venuto dopo di lui la più luminosa eredità possibile.
Manuela Pivato
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