Silvia Bortot: «La boxe mi rende bella»

L’infanzia a Levada, l’adolescenza fra Salgareda e Mestre, il presente fra Abano (dove risiede) e San Bonifacio (s’allena alla Verona boxing fighters). Con un luogo del cuore chiamato Thailandia: «Qui, a Bangkok, ho disputato il mio primo match di boxe. Una terra cui sono legatissima». Silvia Bortot, classe ’84, si racconta dal Paese asiatico, dove trascorre le meritate vacanze. C’è da festeggiare il risultato più importante della carriera: la cintura europea dei superleggeri conquistata per k.o. tecnico due settimane fa a Compiègne (Francia), a scapito dell’atleta di casa Marie-Hélène Meron. Si tratta di un’impresa che alla boxe femminile italiana mancava dal 2016.
Silvia, la prossima sfida?
«La cintura andrà difesa. Spero di farlo in Italia, magari in Veneto. Ulteriore step sarà il titolo mondiale Wbc, quindi l’unificazione delle varie cinture. Già un sogno era centrare l’Ebu, ora l’importante è non smettere di sognare».

Come s’è avvicinata alla boxe?
In verità cominciai con le arti marziali. La passione sbocciò con i film, Jean-Claude Van Damme e Bruce Lee: mi immedesimavo nei protagonisti, mi sentivo un po’ samurai e un po’ ninja. Poi arrivò il tennis, ma smisi per seguire lo studio».
Dalla racchetta ai guantoni: come andò?
«Ero diventata un po’ “cicciotella”, così provai la fit-boxe. Mi dissero che ero portata, iniziai dal kick-boxing: avevo 18-19 anni, Bruno Visentin fu il mio primo maestro a Mestre. Ero brava, presi pure un bronzo ai Mondiali».
Una carriera eclettica, ma ancora al pugilato non siamo arrivati: come lo scoprì?
«All’origine di tutto, c’è un infortunio. Una partitella di beach volley con gli amici, a Lignano: rottura della tibia e dei legamenti del ginocchio. La riabilitazione fu lunga, avevo paura di tornare sul ring. Così un amico mi propose di fare pugilato a Mestre, almeno i calci non li avrei più dati. Il primo impatto fu: “Che schifo! Nella boxe, usi solo le braccia”. Avevo 26-27 anni: il brivido della competizione fu decisivo, così come la voglia di dimostrare a me stessa che avevo ancora molto da dire».

La boxe, però, non la entusiasmava: come riuscì a farsela piacere?
«All’inizio, tanti mi ripetevano: “Dove vai? Sei vecchia!”. E l’avevo nascosto a tutti, pure al lavoro. Se mi facevano l’occhio nero, mi truccavo. Invece ora l’occhio nero non mi fa paura».
E con il pugilato è scoppiato l’amore.
«Pensi, uno sport che non mi passava per l’anticamera del cervello. Poi è stato come un incantesimo: scopri che mondo c’è dietro, ne comprendi i valori, raggiungi l’equilibro. A me ha salvato la vita».
Prego? Spieghi meglio.
«Penso mio papà, ammalatosi, quand'ero adolescente. Esperienza che segna: hai una supermamma e le sorelle, ma un perno ti viene a mancare. E poi c’è il mio coming out, ormai noto ai più: un problema alimentare, ho sofferto di bulimia. Sì, il pugilato mi ha dato manforte nel combattere le avversità. Uno sport magico: avete presente i giovani tolti dalla strada, in Campania?»
Una disciplina che aiuta per tante ragioni.
«Aiuta a prendere coraggio, le vittime di violenza e chi soffre di bullismo. A livello personale, ho seguito un progetto a Ponte di Piave con pazienti oncologiche. Dopo 10 lezioni di boxe, sono rinate. Un’idea decollata con l’associazione “Amiche per la pelle” e il team di psicoterapeuti “I Figli di Eracle”: siamo stati i primi in Italia. Donne diventate le mie prime fans, c’è chi la fa tuttora».
Ama i tatuaggi: sull’avambraccio, ha fatto scrivere in francese “la boxe mi rende bella”. Il significato?
«Accanto è disegnata una rosa come simbolo di bellezza, ma anche una ragazza con guantoni e rasoio. Perché la mia vita è un po’ sul filo del rasoio… Con la boxe mi sono sentita più bella, ho espresso meglio la femminilità. Non è quella di una modella, ma di un’atleta, che nulla deve invidiare ad altri sport. E che dopo i cazzotti, indossa l’abito lungo ed esce con le amiche. Vorrei sparisse l’etichetta di “disciplina maschile”. Un tabù da sfatare».

Una femminilità che ha esaltato negli shooting fotografici: un esempio?
«Sono un po’ creativa e glamour. Così mi è piaciuta l’idea di posare con l’armatura da football americano. Mi sentivo guerriera».
Ha visto il film “Million dollar baby”?
«Sì, molto bello. Finale tragico, ma tanti concetti veri. Di sicuro, ha aperto la strada alla boxe femminile. Prima sconosciuta».
Il rapporto con i pugni?
«Fanno più male le mazzate psicologiche. Ovvero: quando hai aspettative, ma queste non si realizzano. E peggio sono pure gli allenamenti: spesso piango dalla fatica. Il naso me l’hanno rotto, ma questa vita me la sono scelta».
Cosa ne pensa la mamma?
«Contraria da sempre. Non l’ha mai accettata, continua a dirmi: “Quando smetti?”. Ma ha visto i risultati ed è orgogliosa di me».
Una vita che non vive solo di combattimenti: il resto della giornata?
«Intanto, insegno boxe al Padova Top Team di Abano. Ma il primo lavoro è grafica designer a San Bonifacio: ho studiato allo Iuav, sviluppo progetti nella ristorazione. Fidanzata? Sì, felicemente».
Perché consigliare il pugilato?
«Perché dà luce a quello che sei. Impari a conoscere meglio te stesso. E poi, saper tirare un pugno fa davvero la differenza. Trasmette sicurezza, insegna a reagire. Anche giù dal ring». —
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