«Seguivo la clownterapia e ho pensato a sciabolare Ora punto agli Italiani»

Nicola D’Ambra a 16 anni è rimasto paraplegico per un incidente Ha provato la pedana. Si sta allenando per conquistare l’oro tricolore 

MARCON

Lo sport è un elemento prezioso nella vita di chiunque, lo si sta capendo anche in epoca di pandemia. La scherma non è giustamente considerata sport di contatto, e sta permettendo anche agli atleti con disabilità di proseguire l’attività e avere una opportunità di condivisione con gli altri che ha un valore aggiunto da mesi a questa parte.

È il caso di Nicola D’Ambra, sciabolatore di livello nazionale, in pedana dal 2008 con l’Officina della Scherma Mirano.

Veneziano, residente però a San Liberale, classe 1978, a ll’età di16 anni è rimasto paraplegico dopo un incidente in moto che gli ha danneggiato la spina dorsale in modo permanente.

Come ha incontrato la scherma?

«Facevo clown terapia in ospedale e ho conosciuto Alessia Tognolli, che era all’Officina del maestro Carrara, e quando hanno aperto la sala mi ha spiegato di cosa si trattava e così è nata la cosa. Mi è piaciuta subito la scherma, prima avevo provato a fare altri sport dopo l’incidente. Mi piaceva anche l’atletica, 100 e 200 metri in carrozzina, ma dovevo andare fino a Piombino Dese per allenarmi, era un problema».

È stato difficile l’approccio?

«Da tempo avevo già elaborato l’incidente e la disabilità, ma avevo anche bisogno di uno stimolo per lo sport. E questo la scherma me l’ha dato. Dopo un inizio in salita, sono arrivate le prime gare, i primi “schiaffoni” presi in pedana da avversari forti. Poi ho iniziato ad ambientarmi e sono arrivati i successi».

Dopo quanto tempo?

«Quasi due anni per la prima vittoria, ma intanto ero già salito più volte sul podio, avevo ad esempio conquistato un bronzo ai campionati italiani».

Cosa le sta dando questa disciplina?

«Per me è stato un primo vero sport praticato. Da ragazzino avevo giocato a calcio, ma quello era uno sport di squadra. La sciabola è individuale, e ti mette di fronte a te stesso. È un’altra realtà la scherma, ti insegna a gestire i momenti, a non arrabbiarsi se si è sotto nel punteggio e dà equilibrio. Poi ho conosciuto tantissime persone fantastiche, a partite da Vittorio Carrara e Alessia Tognolli, ovviamente».

E nel frattempo allena anche due ragazzi.

«È una opportunità che mi ha dato il maestro Carrara, sotto la sua supervisione. È bello poter trasferire le cose che ho imparato negli anni. Vedo i ragazzi che mi ascoltano e mi seguono. Osservano e applicano. Diventi una figura importante per loro. Indipendentemente che tu sia un campione o meno. Se vedo che si uno impegna gli do l’anima. E imparo tante cose. Mi piace stare con loro, mi fa sentire utile, e li stimolo a dare il meglio».

Le mancano le gare?

«Tanto, davvero. Ti regalano adrenalina a mille, come alle finali nazionali. È bellissimo, ti fanno sentire vivo».

Come vive l’integrazione in pedana con i compagni di sala?

«C’è una piena integrazione nella scherma, il paralimpico non è un reparto diverso, siamo tutti assieme ed è tutto naturale. All’Officina siamo una famiglia, non si vede la “differenza” dell’essere in carrozzina. Si ride, si scherza, ci si impegna. Alla fine fai la stessa cosa anche se cambia un po’ la dinamica. Ma tra parate, risposte e azioni varie è tutto uguale. Una integrazione naturale e istintiva, vedi la sedia e vai. E tiri per vincere».

Quado prezioso è stato poter continuare gli allenamenti in pandemia?

«Molto importante, non essendo sport di contatto, rispetti le norme in collaborazione con il Comune di Mirano e i Dpcm. Per noi è una fortuna. Altrimenti non avremmo potuto far nulla davvero. Soprattutto per chi ha più limitazioni fisiche è una manna ed è salutare».

Obiettivi?

«Sicuramente il titolo italiano, che mi manca, dopo tanti piazzamenti. Ma non deve essere una ossessione, altrimenti non ti diverti». —

S. B.

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