Pizzati: «Basta partite ma non lascerò il Riviera»

La trequarti del Mira e della Nazionale ha giocato l’ultimo match a 42 anni Emozioni dal primo scudetto vinto grazie alla sua meta fino alla gloria in Scozia

MIRA. No, Silvia Pizzati non rimpiange niente. Domenica, sul campo del Valsugana, ha chiuso per sempre la sua carriera di giocatrice di rugby, ma non fa una piega anche se è costretta a smettere per raggiunti limiti di età, visto che i regolamenti prevedono che si possa giocare fino a 42 anni.

Giocatrice simbolo del Riviera e della Nazionale, Silvia ha chiuso un’avventura sui campi di gioco iniziata quasi trent’anni fa, nel 1989, quando la palla ovale in rosa non era ancora riconosciuta dalla Federazione. Ma di lacrime, di rimpianti, nemmeno l’ombra.

«Non è un momento traumatico», sorride, «credevo di avere chiuso con il rugby dopo la nascita della mia primogenita, invece poi sono tornata. Ho avuto una bella carriera, ho giocato tanto, se mi chiedono quante partite ho fatto non so dare una risposta. Se contro il Valsugana per l’ultima volta sono scesa in campo come giocatrice, quindi, non faccio drammi. Resta l’amore per il rugby, a qualcuno potrà sembrare retorica ma chi c’è dentro sa quanto questa sia una grande famiglia. E poi, mica smetto del tutto, anche se non potrò più giocare continuerò ad allenarmi con le mie compagne.

La galleria dei ricordi di Silvia è immensa, c’è il primo scudetto vinto da Riviera nel 2004 grazie proprio a una sua meta, c’è la prima vittoria della Nazionale nel Sei Nazioni donne contro la Scozia, manco a farlo a posta proprio sul campo di Mira. C’è, soprattutto, la storia di un rugby che è cambiato sotto tutti i punti di vista.

«Penso che il primo scudetto, vinto a sorpresa nella finale con la Benetton sia stato l’apoteosi», dice, «mi sono trovata a vivere la crescita del movimento a tutti i livelli. Tanto per capirci, all’inizio tutti si stupivano quando dicevo che giocavo a rugby: erano convinti, infatti, che per praticare uno sport una donna dovesse essere obbligatoriamente brutta e grossa. Poi è cambiato il modo di allenarsi, quando ho iniziato c’era meno attenzione ai dettagli, ora invece la preparazione dei giocatori è molto più accurata, si è persa la dimensione “ruspante” delle origini».

La trequarti del Riviera, tra l’altro, ha chiuso la sua avventura agonistica in una domenica di dolore per il rugby italiano, in particolare per quello femminile: su tutti i campi, infatti, si è osservato un minuto di silenzio in memoria di Rebecca Braglia, la giocatrice dell’Amatori Parma deceduta dopo tre giorni di coma a causa di un trauma cranico dopo un placcaggio.

«Questa tragedia mi ha colpito subito», mormora, «e ho pensato a tante cose, al fatto che io ho avuto la possibilità di giocare ben oltre ai quarant’anni, vivendo tante esperienze, dagli scudetti ai due Mondiali disputati, e invece Rebecca è morta così giovane, quando avrebbe potuto giocare ancora tante gare e, soprattutto, vivere molto».

C’è lo spazio per l’amarezza, sacrosanto, ma c’è anche quello per la dolcezza, per ricordare l’amore per il marito, ex rugbista, e per i figli, una bambina e un bambino rispettivamente di 6 e 4 anni: «Mio marito mi ha sempre sostenuta. Quando ho deciso di tornare a giocare dopo la nascita della mia prima figlia mia ha detto: “Se ti diverti, vai in campo tranquilla”. I miei figli? Beh, qualche settimana fa sono venuti a vedermi allo stadio di Monigo nella sfida contro le Red Panthers Treviso. A fine gara mi hanno chiesto di vedere dove avevo preso qualche colpo, alla sera a casa hanno voluto che giocassimo a rugby: nella loro versione del gioco, però, dopo ogni placcaggio dovevo essere io ad andare a terra...».

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