«La mia Milano-Sanremo di corsa tra i camion»

Atletica. Andrea Zambon, 42enne ultramaratoneta veneziano, tra passione e paura

VENEZIA. Dopo imprese come la Spartathlon e la Ultrabalaton, il veneziano Andrea Zambon si è cimentato pochi giorni fa nella Milano-Sanremo, prova di endurance per podisti lunga 282,7 chilometri. La più lunga in Europa, da terminare entro 42 ore correndo tutto d’un fiato. Praticamente sei maratone in meno di due giorni tra mille problemi fatti di mancanza di segnaletica adeguata e rischi correndo sul ciglio delle strade durante la notte. «Una prova massacrante» ammette Zambon, «in cui fino all’ultimo mi sono chiesto se partecipare o meno. Mi ero iscritto lo scorso anno quando era uscito il bando, poi avevo deciso di non farla. Troppi i dubbi in merito alle condizioni di gara. Poi, il 27 marzo, giorno del mio compleanno, ho deciso di farla cambiando idea. E due giorni dopo mi sono trovato ad affrontare un percorso tradizionalmente fatto dai ciclisti. Dopo 108 anni, infatti, si è deciso di aprire questa gara anche ai podisti». Ed ecco che ad Andrea Zambon si è profilato un tracciato di 282,7 km, tempo limite di 42 ore, con soli 49 avversari sul campo. Cinque i cancelli di controllo con relativo punto di ristoro ogni 50 chilometri. Era consigliatissima l’assistenza con un’auto al seguito, ma Zambon ha rinunciato, ed è stato solo uno dei quattro atleti presenti ad affrontare la corsa da Milano a Sanremo in solitaria assoluta. «Io e il mio zainetto» aggiunge, «e per fortuna non ho avuto problemi fisici, ma l’organizzazione è stata pessima. Lungo il percorso pochissime indicazioni, solo una quindicina di fogli scritti a mano attaccati ai pali lungo la strada. A Imperia mi sono perso, e ho lasciato per strada due ore per cercare il percorso giusto che mi portasse a Sanremo. Ho chiuso al nono posto, ma potevo arrivare anche sesto, peccato». Zambon non risparmia critiche agli organizzatori. «Abbiamo corso in mezzo al traffico rischiando di essere investiti dai camion, e lasciamo perdere la notte con solo la luce sul casco a illuminarci l’asfalto. Oltretutto ci si doveva alimentare correndo, visti i tempi strettissimi per arrivare al traguardo. Quando ho concluso la gara ero nervosissimo per i rischi corsi, e ho urlato di tutto contro i responsabili. Sono stato fortunato, altri partecipanti sono finiti in ospedale per ipotermia e disidratazione». Archiviata questa avventura, prossi traguardi quelli delle gare oltre i 200 chilometri».

Simone Bianchi

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