«La boxe è l’arma migliore per vincere il bullismo perché insegna il rispetto»

mestre. «Mi chiamo Sante Beretta, detto Dinamite. Sono nato a Mestre 83 anni fa, nel quartiere che una volta si chiamava Macallé e che ora è Altobello, e ho passato una vita lavorando ai Magazzini generali. È stato Gino Campagna a convincermi a iscrivermi in palestra, io non volevo. Avevo 10 anni, a 13 ho disputato il mio primo match. Ne sono seguiti 117. Ho preso tante botte, ne ho date tante: mi sono divertito un mondo. A me non piaceva fare baruffa, sono sempre stato un solitario, come tutti i pugili: non fumavo e la sera non andavo a ballare. Speravo di diventare campione italiano, ma non sono riuscito a giocarmi il titolo, non per colpa mia. È andata così». Potrebbe riassumersi con queste parole lo spirito della boxe: dare e prendere botte, tutte sul ring. Per uno sport in cui la violenza è elemento ineliminabile: mezzo, mai fine. Il pugilato come voglia di riscatto, come antidoto contro la prevaricazione del più debole, strumento in grado di agire “prima”, prima che sia troppo tardi: questo il tema dell’incontro “La boxe quale prevenzione per il bullismo”, mercoledì nella palestra Coni di via Olimpia.

«La boxe è una scuola di vita», ha esordito Fabrizio Coniglio, presidente del Panathlon Club Mestre, «è necessario un dialogo con le istituzioni, per imporre lo sport nelle scuole in modo massivo. Senza un intervento immediato, questa generazione può considerarsi già perduta». Spiega il giornalista Valter Esposito: «Il pugilato è un deterrente per il bullismo, perché è uno sport sano. Due uomini dello stesso peso si ritrovano a scontrasi su un ring, per poi abbracciarsi al termine della gara». Con la defezione di Gianfranco Bettin, è spettato a Luciano Favaro il compito di arringare la folla. «La boxe è uno sport crudo, che vuole sacrificio», ha esordito il presidente di Union Boxe Mestre, una strada che non è per tutti, fatta di disciplina, fine ultimo di questo sport: «C’è chi dice che il pugilato non è violento. Mente: il pugilato è violento, ma si tratta di una violenza controllata, che segue delle regole, la prima delle quali è il rispetto dell’avversario. La passione per la boxe è un elemento potenzialmente determinante nella crescita dei ragazzi, perché è divertimento, controllo delle capacità emozionali, miglioramento dell’autostima». La “violenza” del pugilato diventa così strumento per mettere a fuoco le proprie capacità, prevenendo ed evitando la violenza “della strada”. Si potrebbe iniziare dalla scuola: «Ma non riusciamo a entrarci, perché incontriamo dei nemici nei dirigenti e negli insegnanti di educazione fisica», spiega Favaro, «vorrei offrire la nostra palestra e i nostri tecnici ai ragazzi che ne hanno bisogno. Vorremmo che fosse uno strumento per contrastare il bullismo che sta dilagando. Apriamo i giornali e leggiamo di baby gang: questi non sono ragazzini, ma delinquenti fatti e finiti. Noi vogliamo aiutare e siamo disponibili a farlo gratuitamente. Abbiamo tenuto dei corsi per le donne soggette a violenza familiare. Abbiamo visto queste persone cambiare, uscire dalla palestra e prendere delle decisioni con coraggio». Tutto nel nome dei grandi princìpi su cui si fonda lo sport, come diceva il giornalista Rino Tommasi, ricordato da Favaro: «Responsabilità, integrità della persona, sano agonismo, rispetto dell’altro e superamento di se stessi. Princìpi che sono guide per valutare positivamente uno sport come la boxe, perché giusto coronamento della persona: mezzo di recupero sociale e morale. Il pugilato è uno sport pericoloso in cui si può morire, ma quanti morti in più ci sarebbero stati se non ci fosse stato il pugilato? ». —

Laura Berlinghieri

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia