Francesco Minto «L’Haka dal vivo mi ha dato la carica»
MIRANO. Il cranio rasato è il suo personalissimo trofeo di guerra, il segno fisico dell'accettazione piena dell'ex-cucciolo all'interno del branco. Quello che da fuori potrebbe sembrare un gesto da caserma, in realtà è una sorta di rito iniziatico che inevitabilmente tocca ogni azzurro al momento dell'esordio, un codice non scritto che i "senatori" come Parisse e Castro hanno il compito di difendere e perpetuare nel tempo. Un passaggio toccato anche a loro, prima, senza il quale il rugby sarebbe un'altra cosa. «Figurati se la matricola per me era un problema! In realtà, aspettavo questo momento fin da bambino: giocare la prima partita con la maglia della Nazionale, e per giunta contro gli All Blacks, è il sogno di ogni giocatore sulla faccia della Terra». L'adrenalina scorre nelle vene di Francesco Minto ancora veloce a distanza di qualche giorno, allo stesso ritmo di un racconto che si mischia allo stupore agitando la voce e gli occhi di questo ragazzone di un quintale nato a Mirano 22 anni fa: dopo la doppia battaglia contro le big dell'emisfero australe, il suo nome è ora ufficialmente sui taccuini degli addetti ai lavori dei principali Club europei, con il direttore generale della Benetton, Vittorio Munari, a fregarsi le mani soddisfatto per aver avuto l'occhio lungo su di lui prima degli altri. «Ho sempre pensato che Treviso fosse l'ambiente ideale per crescere sotto tutti i punti di vista, tecnico, atletico e umano» conferma l'avanti azzurro, «se mi è successo quello che mi è successo, lo devo molto alla scelta fatta allora».
Il film è quello che ha fatto impazzire mezzo Paese: l'Italia che batte a fatica Tonga, l'Italia che poi affronta in sequenza la prima e la terza del ranking mondiale, Nuova Zelanda e Australia, tenendo testa ai Campioni del Mondo per oltre 60’ e sfiorando il successo con i Wallabies dopo averli messi in scacco per tutto il secondo tempo. In campo, a svuotare polmoni infiniti portando palla e placcando come un pazzo, lui, Francesco da Mirano, i primi due caps azzurri a metà tra inferno e paradiso. «Devo ammettere che quando Jacques (il CT azzurro Brunel, ndr) mi ha tenuto fuori contro Tonga, ci sono rimasto male» continua «ma tre giorni dopo, quando mi hanno detto che sarei partito titolare contro gli All Blacks in un primo momento non ci ho capito niente. Poi mi sono concentrato e tutto è filato liscio». In un Olimpico gremito, la prima Haka affrontata dal vero: «Nessuna paura, solo una carica incredibile che, stretto ai miei compagni, sentivo salire ogni secondo di più». Poi via, 80’ di battaglia vera, un nemico in nero che sembra moltiplicarsi senza controllo in ogni zona del campo ma che per portarsela a casa, la partita, se la deve sudare. «Alla fine la sensazione era che avessimo guadagnato il loro rispetto». E la settimana dopo, l'Australia: a Firenze il “Franchi" pieno di gente e di aspettative, in tribuna tutta la famiglia, perché lui, Francesco, dopo la performance contro i neozelandesi, da quella mischia non lo toglie più nessuno. «Il rischio di bruciarti, giocando contro gli All Blacks da esordiente, è alto, ma con l'aiuto dei compagni l'esame è stato superato. Contro gli australiani la tensione era inferiore e difatti siamo partiti con troppa indisciplina. Poi però abbiamo ripreso confidenza con il nostro gioco, e nel secondo tempo avremmo meritato di vincere». Lui, qualcosa lo ha vinto davvero: a fine gara è stato votato dalla stampa "Man of the Match", l'uomo-partita, un onore che tocca solo ai più grandi. «Il premio è qualcosa di fantastico: sopra c'è il mio nome, ma è da condividere con tutta la squadra, avete visto tutti che razza di partita hanno fatto i ragazzi».
Gianluca Galzerano
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