Lubo, il film nomade di Giorgio Diritti, è l’ultimo italiano in concorso alla Mostra del Cinema
Racconta dei bimbi jenisch che la Svizzera strappò alle famiglie per “rieducazione nazionale”.
Il regista alla presentazione al Lido: «Un segnale politico e soprattutto umano perché quanto accaduto non si ripeta»
Ultimo italiano in concorso, “Lubo” di Giorgio Diritti racconta una vicenda che ben pochi conoscono, liberamente tratta dal romanzo “Il seminatore” di Mario Cavatore.
Anche in Svizzera, il paese che nell’immaginario comune è un esempio di democrazia, è avvenuto in anni non lontani uno scontro etnico, animato sempre dalla paura del diverso, in questo caso una delle grandi famiglie degli zingari europei dopo rom e sinti, gli jenisch o zingari bianchi perché di origine germanica, al contrario degli altri.
La storia
Negli anni Trenta, la Confederazione Elvetica strappò innumerevoli bambini alla famiglia in quanto jenisch, per attuare il programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse).
Centinaia di ragazzini vennero adottati da famiglie ricche o semplicemente affidati a contadini come forza lavoro, sostenuta da collegi e associazioni ad hoc come la Pro Juventute: dopo la chiusura del programma nel 1972 e un decennio di denunce, solo all’inizio degli anni ’80 la Svizzera ha riconosciuto la persecuzione, avviando i risarcimenti per gli ultimi eredi.Se il numero dei bambini ufficialmente coinvolti è di 585, quelle effettivo supera i duemila.
Il film
Il film segue Lubo, uno jenisch arruolato nell’esercito svizzero nel tentativo di ritrovare i figli strappatigli in sua assenza e ottenere giustizia, ma interseca altre vicende, affastellando fin troppo la narrazione: così ecco il richiamo alle armi per proteggere i confini dal pericolo nazista, l’ebreo traditore e imbroglione che si rifugia in Svizzera con soldi e gioielli di correligionari rimasti in Austria, di cui poi Lubo indossa identità e vita, il ritorno alla normalità, a un’altra famiglia, a un altro orizzonte di serenità e amore. Ma, come sempre, il delitto non paga, anche se a fin di bene.
La produzione internazionale
«È un film nomade» dice Giorgio Diritti, facendo riferimento al tema, ma soprattutto alla produzione internazionale che è uno degli aspetti positivi di questa massiccia presenza del cinema italiano a Venezia, che resta però ancora debole quanto a esiti.
“Lubo” ha infatti messo assieme non solo Rai e Rsi svizzera, ma diverse realtà produttive da Indiana ad Arancia e film commission, dal Trentino al Piemonte. È ambientato tra i Grigioni e il lago Maggiore, ma usa anche l’Alto Adige per le location: in totale 120 persone sono rimaste a lungo in montagna, con grandi difficoltà logistiche. Che tuttavia hanno amalgamato il film, dandogli una statura morale, in verità superiore a quella cinematografica.
L’intento di Diritti è quello di «dare un segnale politico non tanto in senso istituzionale, ma umano. Occorre essere vigili, perché queste storie ritornano come è accaduto ai bambini ucraini deportati dai russi».
Il problema del film non è però la sua lunga durata (tre ore), quanto un girovagare narrativo che lo rende visivamente meno denso nella parte centrale. L’intento del regista è dimostrare la voglia di amare di Lubo, al di là della reazione di violenza, che pure scatena, nonostante si prenda carico della tragedia, «come ognuno di noi dovrebbe cercar di far sì che il mondo migliori».
Un orizzonte comune oltre le diversità, come sottolinea il monologo finale di Lubo, interpretato con molta preparazione anche linguistica, da Franz Rogowski.
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