Venezia, l’anno no dello sport: défaillance che fanno riflettere

Ha davvero senso, oggi, quel progetto tanto agognato dall’attuale giunta veneziana di investire 250 milioni di euro per la cittadella dello sport?
Roberto Ferrucci

VENEZIA. A volte bisognerebbe prendere in seria considerazione le coincidenze, i segni che arrivano inattesi e che sembrano mandati apposta da qualcuno con la voglia di dirci qualcosa di indiscutibile, di inequivocabile.

C’è chi scaramanticamente fa finta di nulla, gira la testa dall’altra parte, volta le spalle. Ignora insomma. Forse non dovrebbe. Perché anche se possiamo prenderle come delle convergenze astrali del tutto improbabili e astratte, sì, a volte quei segnali sono pieni di significato, sono riposte a scelte discutibili, a decisioni azzardate o fuori luogo.

Prendete il crollo verticale della squadra del Venezia nella seconda parte del campionato di serie A, oppure l’eliminazione inattesa della Reyer nei quarti dei playoff. Due fallimenti che hanno tutta l’aria di portare con sé un sottotesto poi non così celato o invisibile. Ha davvero senso, oggi, quel progetto tanto agognato dall’attuale giunta veneziana di investire 250 milioni di euro per la cittadella dello sport?

Quando dico oggi, non intendo il giorno dopo le due défaillance nel calcio e nel basket. Intendo oggi come epoca, nel maggio del 2022, dopo due anni devastanti di pandemia e tre mesi di una guerra nel cuore dell’Europa di cui non si vede la fine (come la pandemia, del resto).

Vero, nel disastro del Venezia c’è la mano di una dirigenza americana che pare non avere capito molto del calcio italiano e per che riguarda la Reyer si tratta soltanto di qualche sconfitta in più, che è parte integrante di qualunque disciplina sportiva. Eppure, alla fine, i due fallimenti sportivi di Venezia e Reyer non fanno che dirci che lo sport è prima di tutto un’attività agonistica, fatta di alti e di bassi, e che sarebbe opportuno restasse il più possibile convogliata dentro a quei confini e meno, molto meno, dentro agli interessi di puro business. Da noi, quando qualcosa funziona, scatta subito la voglia di sfruttare quel qualcosa fino in fondo.

Con la consapevolezza, poi, che lo sport è sì una cosa meravigliosa, che tutti dovrebbero praticare e amare, ma che non è affatto sinonimo di cultura, come sostiene qualcuno dalle nostre parti. No, la cultura è altro, è conoscenza, è sapere, è crescita interiore dell’individuo e di una società intera.

Sarebbe molto più opportuno, come accade in molti altri Paesi, che si investisse più nella cultura, una cultura capace di stimolare e incuriosire, rivolta soprattutto ai giovani, e non ci si concentrasse solo ed esclusivamente sullo sport, come accade invece qua da noi. I segni che arrivano inattesi stanno lì a dircelo.

Meditate gente, intesa come chi di dovere.

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