La comunità bengalese e Venezia: un legame in crescita che richiede nuove risposte
La moschea non è solo un luogo di culto: offre servizi ed è una casa comune nella quale è possibile mantenere vivo il fuoco della tradizione
Venezia, con la sua posizione strategica tra Oriente e Occidente, è stata per secoli una città di straordinaria importanza commerciale e culturale, un crocevia di diverse civiltà e religioni. Grazie alla sua apertura al mondo e alla sua vocazione mercantile, ha accolto comunità di mercanti, artisti, letterati e religiosi provenienti da ogni parte del Mediterraneo e oltre.
Questa convivenza di culture e fedi diverse ha contribuito a creare un tessuto sociale ricco e variegato, riflettendosi nell'architettura, nell'arte, nella cucina e nelle tradizioni cittadine, rendendo Venezia un esempio di città multiculturale e multireligiosa ante litteram. Luoghi iconici come il Ghetto ebraico, la chiesa di San Giorgio dei Greci, l’isola di San Lazzaro degli Armeni o il Fontego dei Turchi ne sono la migliore rappresentazione.
Nella Venezia di oggi troviamo comunità nazionali e religiose presenti in città da molto tempo, soprattutto nel centro storico, ma anche comunità arrivate in tempi più recenti e proprio per questo ancora poco inserite nella vita politica, economica, sociale e culturale della città.
Oltre ottomila bengalesi
L’esempio più significativo, non solo dal punto di vista demografico, è quello della comunità bengalese. I bengalesi sono oggi il primo gruppo di cittadini stranieri residenti nel Comune di Venezia (8.231 persone al 31/12/2023, dati dell’Ufficio Statistica del Comune). Tuttavia, contando anche i non residenti, si arriva all’incredibile numero di trentamila persone.
L’immigrazione bengalese a Venezia è iniziata fra gli anni Ottanta e Novanta, spinta dalle opportunità offerte dal settore turistico, dalla ristorazione e dall’industria navale.
Negli anni la comunità è cresciuta sempre di più, grazie anche ai ricongiungimenti familiari, e ha stabilito una presenza significativa a Mestre e Marghera.
In passato, prima della Brexit, molti bengalesi si trasferivano dall’Italia al Regno Unito alla ricerca di migliori opportunità di lavoro, lamentando anche una mancanza di adeguate strutture religiose e sociali nel nostro Paese. Oggi invece il trend si sta invertendo e molti bengalesi con cittadinanza italiana sono tornati a vivere a Venezia, attratti soprattutto dal minor costo della vita e dalla qualità del sistema sanitario italiano.
Quella bengalese è una comunità coesa, giovane, con famiglie numerose e figli in età scolare, che tuttavia non sembra ancora pienamente integrata nel tessuto cittadino. Da cosa deriva questa difficoltà?
Integrazione come?
I principali ostacoli all'integrazione riguardano sia l'aspetto economico e sociale, come le difficoltà nell'accesso agli alloggi, all'istruzione superiore e alla formazione professionale, sia l'ambito culturale, con barriere legate alla lingua e al bisogno di luoghi di culto e spazi adatti per attività ricreative. In particolare, il tema del luogo di culto, è fondamentale, non soltanto per le funzioni religiose, ma anche come centro di aggregazione e punto di riferimento culturale. La moschea potrebbe offrire una serie di servizi, dai corsi di lingua alle attività educative per i giovani, e avere ricadute positive sul territorio circostante, specie se costruita in una zona abbandonata o degradata. In termini di sicurezza, un luogo di culto adeguato alle dimensioni di questa comunità potrebbe evitare la proliferazione di centri di preghiera allestiti nei luoghi più svariati, dai capannoni agli scantinati, che oltre a non rispettare standard normativi, urbanistici e igienici, possono favorire attività poco trasparenti ed essere più permeabili ad infiltrazioni criminali o estremiste.
Per molte comunità straniere, non soltanto quella bengalese, il luogo di culto rappresenta un rifugio spirituale e culturale, una casa comune nella quale è possibile mantenere vivo il fuoco della tradizione, anche a decine di migliaia di chilometri dalla propria terra d’origine.
I casi di Zelarino e Campalto
Mestre ci offre già degli splendidi esempi di luoghi di culto che hanno apportato benefici alle rispettive comunità, ma anche alla città nel suo complesso, soprattutto in termini di rigenerazione urbana e di miglioramento estetico. Basti pensare alla Chiesa ortodossa-romena di Santa Lucia a Zelarino o alla bellissima Cattedrale copta di San Marco a Campalto, inaugurata nel 2023 alla presenza di Tawadros II, Papa della Chiesa ortodossa copta.
È impossibile, dunque, immaginare la Venezia di domani senza considerare l’impatto che le diverse comunità etniche e religiose avranno sulla vita, sull’organizzazione e sull’estetica della città. Dalla capacità di dialogare con queste comunità, di interpretare i loro bisogni materiali e spirituali, di valorizzarne le differenze connettendole in un unico tessuto urbano, dipende il futuro di Venezia, di Mestre e di tutto il territorio comunale.
Chiunque amministrerà la città nei prossimi anni non potrà sottrarsi a questa sfida e dovrà trovare le risorse e gli strumenti per affrontarla nel migliore dei modi. Un assessore con delega ai rapporti con le comunità etniche e religiose (come delega principale, non come una delle tante che si accumulano) potrebbe essere la figura giusta per guidare questo processo e darebbe un segnale forte anche ad altre città italiane che hanno fino ad ora sottovalutato il tema, facendo di Venezia un modello virtuoso.
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