I primi testimoni della tragedia: «Tutti sapevano ci sarebbe stata la frana, nessuno ne aveva previsto la portata»
Il giornalista Carlo Mocci ricorda il 9 ottobre e le immagini di Aldo Missinato. E come lui tanti ertani che vivono in riva al Livenza non hanno dimenticato
La notte del 9 ottobre 1963 i primi a arrivare a Longarone, che era ancora buio, furono due sacilesi, il fotografo Aldo Missinato e Carlo Mocci, giovane collaboratore del Gazzettino.
«Aldo fu avvisato da un appuntato dei carabinieri – ricorda Mocci –. Partimmo per Longarone. Era notte fonda, raggiungemmo quello che fino a poco prima era stato il paese. Alle prime luci dell’alba i nostri occhi non avevano scampo di fronte a quello che non sono più riuscito a dimenticare: i corpi, tanti bambini, nudi e bianchissimi, i poveri resti di vite distrutte dalla furia dell’acqua, dalla massa di fango e detriti, gli alpini che piangevano come bambini... Mi sono seduto su un cumulo di pietre, in preda all’angoscia, e ho cominciato a battere meccanicamente un sasso. Risuonava in modo strano, metallico: scavando un po’, ecco apparire la campana del campanile di Longarone».
«Poi – continua – sono arrivati giornalisti e fotografi da tutta Italia. Ma io e Aldo Missinato, e il giorno dopo anche il fratello Bepi, fummo davvero i primi. I gemelli Missinato scattarono centinaia e centinaia di foto, ma Bepi, che fu poi intervistato da Sergio Zavoli in un memorabile servizio Rai sulla tragedia, scelse di fotografare solo i luoghi, non i corpi. Ritornati a Sacile per giorni fummo assediati della gente che voleva avere notizie. Una delle vittime, di quelle i cui corpi non furono mai ritrovati, era una Sacilese, una giovane maestra, fresca di nomina».
«Un sasso caduto in un bicchiere», scrisse il bellunese Dino Buzzati sulle pagine del Corriere. Il bicchiere non si è rotto perché era un bicchiere fatto a regola d’arte:
Ancora oggi – dice Carlo Mocci – quando passo per Longarone giro la testa dall’altra parte perché non riesco proprio a guardarla, la diga
La storia dei Manarin
«Ero in piedi davanti alla finestra aperta della mia camera. Avevo da poco finito di giocare a pallone in piazza con i miei amici, era ora di andare a dormire. Guardavo il monte Toc illuminato dai fari che dal cantiere della diga monitoravano gli spostamenti della frana imminente. Perché tutti sapevano che ci sarebbe stata, solo che nessuno ne aveva previsto la portata. Poi mi sono accorto che una massa di terra, una specie di collinetta, lentamente scendeva e si adagiava sull’orlo del lago. In quel momento è venuto giù tutto. Lo spostamento d’aria mi buttò indietro, sul letto…E poi fu il buio assoluto».
Il 9 ottobre 1963 Antonio Manarin aveva 16 anni e abitava con i genitori e gli 8 fratelli, tutti maschi, a Casso, proprio vista diga e monte Toc. Era un mercoledì, mercoledì di Coppa dei Campioni, alle 21.55 nei pochi bar e case dove c’era già la tivù molti si erano ritrovati per guardare la partita Real Madrid-Rangers Glasgow, magari arrivando fino a Longarone, tanto per passare una serata diversa e in compagnia.
Eppure non era stata una giornata come le altre, racconta Antonio: «Il 7 ottobre era arrivata l’ordinanza di evacuazione della piana del monte Toc. E anche il 9 c’era stato tutto un via vai, io avevo aiutato la nonna Lucia a portare giù le mucche per farle abbeverare alla pozza del Frasein. E poi sono salito a Casso: lei, invece, è rimasta giù e non l’abbiamo più rivista, né viva né morta».
Dopo il disastro la famiglia Manarin e altri gruppi di compaesani decisero di scendere in pianura, a Sacile, e cambiare vita: lavorare i campi, cercare un po’ di stabilità lontano dalla terra stravolta dove tutto era cambiato, la geografia dei luoghi ma anche la natura stessa delle persone e delle relazioni sociali.
I Manarin e molti altri come loro ci hanno messo un bel po’ prima di ricominciare a parlare di quello che era accaduto. Oggi riconoscono «una nostalgia che ti porta su» perché l’onda maledetta non è riuscita a spezzare i legami che hanno tenuto unite intere generazioni alla loro terra. Tanto che la figlia maggiore di Antonio, Valentina, ha raccolto il testimone e oggi fa la guida, o meglio l’“informatore della memoria”, per i visitatori della diga.
Rico, l’operaio
Ha mani forti di lavoratore, Antonio: quelle mani girano e rigirano le foto del monte Toc prima e dopo la frana, foto su cui sono indicate tutte le località, le casere e le malghe di cui erano disseminate le pendici e i pascoli a cui si accedeva, dal versante di Casso, attraverso un lungo camminamento dal fondovalle o percorrendo una passerella che dondolava a cento metri di altezza.
Quasi non ricordo il boato – dice ancora – In quel momento in casa c’era mia madre, rimasta ferita dalla massa di sassi, pietre e detriti che erano piovuti sopra il paese; e poi sei fratelli perché i due più grandi e il papà erano via a lavorare. Mia madre mi affidò i piccoli: li raccolsi intorno a me e non so come riuscii a trascinarmeli dietro, dietro la gente di Casso che scappava su in alto, via da quell’inferno.
Rico Mazzucco, fraterno amico di Manarin, è uno dei tanti venuti a Sacile. E come tanti altri ragazzi di Casso, Erto, Longarone nell’autunno del 1963 era lontano per lavoro, in Val d’Aosta, a costruire – guarda un po’ – una diga, quella di Beauregard. Aveva 17 anni e ora non può ricordare la frana, il vento, il frastuono della montagna e dell’onda, il buio. Ricorda l’angoscia di un interminabile viaggio a ritroso: «La notizia che era arrivata al cantiere diceva che la diga era crollata. Eravamo un gruppo di operai tutti conterranei, ci caricarono su taxi e partimmo. Nessuno aveva voglia di mangiare, di parlare. Continuavo a chiedermi chi e cosa avrei rivisto: avrei rivisto qualcuno della mia famiglia, vivo? Uno dei primi che ritrovai fu mio fratello e ciò che ricordo con nitidezza sono le facce su cui era stata cancellata ogni traccia di vitalità. Vedevo solo disperazione, neanche il sollievo di essere vivi trapelava dai volti».
Anche Rico si è chiuso nel silenzio per molto tempo, ma il ricordo, come una tenace vena d’acqua, si è fatto strada: una volta andato in pensione, ha cominciato a realizzare piccoli modelli in gesso del Vajont di una volta, una ricostruzione in miniatura per far capire la portata della distruzione che in una manciata di minuti ha spazzato via un vasto territorio, una ricostruzione ora in mostra a San Gregorio, a Sacile, e di cui è artefice anche la moglie, Elsa Salvador.
La piccola Elsa
Elsa aveva solo 11 anni nel 1963 e viveva a Provagna, un borgo in comune di Longarone, a 400 metri di altitudine sopra la valle del Piave, accanto alla diga. In casa c’erano solo donne perché il papà di Elsa era morto pochi mesi prima.
Racconta: «La mamma aveva fatto venire una sua amica per avere un po’ di conforto e mi aveva permesso di rimanere alzata più a lungo per fare un disegno per la scuola, iniziata da pochi giorni. Poi alle 22.30 andammo a letto, che cominciò dopo poco a tremare, pensavo che l’amica di mia mamma lo facesse apposta, ma poi andò via la luce e capimmo in un lampo che cosa stava succedendo. La diga era crollata, quello fu il primo pensiero di tutti quella sera, quelli che ebbero il tempo di pensare qualcosa. A tentoni scendemmo le scale e uscimmo: c’era un rumore così forte che non riuscivamo a sentirci, la gente saliva per mettersi al sicuro. C’era la luna e dall’alto si vedeva il Piave in piena che aveva coperto ogni cosa, da sponda a sponda». Elsa tornò a dormire a casa, quella sera, perché Provagna non fu toccata dall’onda che rase al suolo, di là del fiume, Faè dove scomparve tutta la famiglia della sua zia paterna.
Il racconto di Pietro
Dall’altra parte della valle che custodisce la diga c’è Codissago dove viveva la zia di un ragazzo di Sacile, Pietro Zanette, allora liceale a Pordenone. «La mattina del 10 ottobre mi stavo preparando per andare a prendere la corriera e mia mamma aveva acceso come sempre la radio per ascoltare il notiziario. Sento che lo speaker dice: la piena del Piave è attesa a San Donà alle 7.30.
Capiamo al volo che è successo qualcosa al Vajont e il pensiero è andato a zia Angelina, ai cugini e ai parenti che stavano lassù. Senza pensarci due volte, abbiamo preso la macchina e siamo saliti per la Valcellina. Al primo posto di blocco dei carabinieri abbiamo proseguito a piedi fino a Erto e poi, per un sentiero a mezza costa, abbiamo continuato a salire per raggiungere Codissago, rendendoci conto che la diga era intatta, imponente e solida. E ricordo l’abbaiare di un cane. Non ci siamo mai fermati e siamo arrivati a Codissago a sera inoltrata. C’era un buio spettrale. Poco dopo trovammo mia zia. Quando fu giorno... quello che avevamo davanti non si può descrivere: corpi, macerie, sassi, fango, le lamiere del ponte di ferro militare attorcigliate. Ero inebetito, incapace di prendere consapevolezza di una realtà atroce».
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