Le loro mani erano intrecciate: «Andiamo?»
Già dal mattino, una luce troppo carica entra dalle poche stecche delle tapparelle lasciate aperte, striscia sui muri, deposita sugli oggetti di una vita la patina di un calore che non se ne andrà nemmeno col buio. Sono i giorni dell’afa, ha detto la televisione, consigliando di bere tanta acqua e non uscire. Mica difficile per Anita, che un caldo così non ricorda di averlo mai patito. E ne ha attraversate quasi novanta di estati, lei.
Troppe, pensa. I vecchi stanno bene al cimitero. Alza il viso per intercettare il misero refrigerio che regala il ventilatore. Le pale sono lente, cigolano e scricchiolano come le sue articolazioni. Andrebbero aggiustate, ma da quando non c’è più Walter, nessuno lo fa. Men che meno Mara, sua figlia, che d’agosto ha altro da fare.
Deve portare al mare Luca, che è l’unica cosa buona che ha fatto insieme a quel buono a nulla con cui si è accompagnata senza sposarsi, che poi l’ha mollata lì come una pitocca, io gliel’avevo detto che capitava, ma lei niente, non mi ha dato retta, perché ai vecchi non si dà retta.
«Ci penserei io a te, se non mi fossi spaccata la gamba, brutto lazzarone» brontola rivolgendo un gesto minaccioso al ventilatore, che cigola più aspro, poi si blocca, come per dire che quella storia lì, lui, l’ha già sentita e anzi, era lì quando è successa. Anita conta tre secondi, poi le pale ripartono, anche se sembrano ancora più stanche.
«È tutto difficile, adesso»
«È tutto difficile, adesso». Il femore non si aggiusta e l’anca fa sempre male, d’altronde lei non si dà tempo, fa quello che non deve, e a mettersi nelle mani di un dottore proprio non ci pensa.
«Me la cavo anche sul trabiccolo» mugugna. Il trabiccolo è il nome che ha dato alla sedia a rotelle che è obbligata a usare, il destinatario della frase è ancora il ventilatore che cigola forte, esasperato per il caldo. Poi si blocca. Anita conta uno, due, tre. Non riparte. «Uno, due, tre» strilla. Inutile. Il calore diventa fisico, pesante sulle spalle. Si fa fatica a respirare.
«Brutto cane d’un brutto cane!»
Spinge con le mani le ruote del trabiccolo, sente il sudore colarle sulla schiena. Va in cucina, prende la scopa, la tiene in grembo e torna sotto alle pale ancora immobili. Si allunga più che può per colpirle, da seduta non ci arriva, si sbilancia, la scopa le sfugge. Fa un fracasso esagerato sulle mattonelle del pavimento.
Per fortuna sotto non ci sono quelli di sotto. Chi vuoi che stia a casa, ad agosto, a parte i poveri vecchi come me?
S’appoggia al mobile vetrina, i bicchieri del servizio buono, regalo di nozze, tintinnano. La vestaglia s’appiccica al trabiccolo, s’appiccica al suo culo, l’anca morde, e lei ricade. Troppo caldo, pensa. Come se fosse colpa della temperatura e non delle ossa. Ci riprova, mica è una che molla, lei. Ha visto la guerra, figurarsi se si ferma davanti a un ventilatore inceppato. S’aggrappa al mobile, riesce ad alzare il fondoschiena di qualche centimetro. S’assesta in una posizione statica, digrigna i denti, insulta la scopa davanti a lei. Spinge. Miracolosamente il movimento ricomincia. È quasi in piedi.
La mano sudata scivola, le gambe cedono. Non ha nemmeno il tempo di proteggersi, il pavimento si avvicina veloce.
Per fortuna non ci sono quelli di sotto, pensa di nuovo.
Poi è tutto buio.
***
A un certo punto torna la luce.
Anita fa la conta dei dolori. Non ne ha. Incredula, si tocca il viso che si è schiantato sulle mattonelle. Per la prima volta da chissà quanto, non sente male all’anca e al femore. Ed è in piedi!
Qualcuno deve avermi aiutata conclude. Si guarda attorno. Scorge un’ombra sulla porta. Dovrebbe avere paura. Invece, d’istinto, le viene solo da sistemarsi la vestaglia per coprirsi le gambe.
L’ombra ride di gusto. Anita riconosce quella risata arrochita da anni di fumo.
«Walter?» le esce con un filo di voce.
«Chi vuoi che sia, qua a casa?»
«È che ero da sola, prima e…»
«Prima era prima, adesso ci sono io. Non serve che ti copri, ti ho vista nuda un bel po’ di volte. Sei sempre un bello spettacolo».
Anita si sorprende a sorridere.
«Me lo fai un caffè? Che come lo fai tu, Ninni... È tanto che non ne bevo...»
Un groppo le stringe la gola. «Lo sai da quanto nessuno mi chiama più Ninni?»
«Lo so, lo so… Dai fammi ’sto caffè».
Mentre carica la moca, Anita guarda di sottecchi il marito seduto al tavolo della cucina accendersi una Marlboro. Glielo ha visto fare migliaia di volte. È tutto così normale. Eppure, è tutto così strano.
«Tua figlia mi ha lasciato qua da sola» le viene da dire. «È andata al mare con Luca, così non lo vedo neanche quest’estate, che d’inverno ha tanta di quella roba da fare, scuola, nuoto, chitarra, chissà quando me lo porta. Voleva che prendessi una donna a vivere con me». Sospira. «Ha anche detto che altrimenti mi portava in ricovero. In ricovero, con tutto quello che ho fatto per lei… Che abbiamo fatto. Scusa, non sono più abituata». A Walter può confidare qualcosa che fatica ad ammettere anche a sé stessa.
«Al mare con lei ci sarei andata»
«Al mare con lei ci sarei andata, però. A tenere dietro al bimbo. Ma non gliel’ho neanche chiesto, non ho avuto il coraggio, avevo paura che mi dicesse che, messa come sono messa, sarebbe stata lei a dover tenere dietro a me. Così sono rimasta da sola…»
«Non sei da sola, Ninni. Te l’ho già detto. Ci sono io.»
Il caffè sale. Finisce nella tazzina, la solita di Walter, quella che Anita non ha mai trovato la forza di buttare. «Non ci sei neanche te. Te ne sei andato dieci anni fa» accenna col mento alla sigaretta accesa. «Per colpa di quella robaccia. E le fumi ancora, brutto disgraziato!»
Walter abbassa lo sguardo sulla sigaretta che tiene la sigaretta tra pollice e indice. «Non mi possono più fare male, adesso. E neanche a te.»
«Neanche a me? Ma cosa…»
Anita non fa in tempo a finire la frase perché l’uomo le prende una mano e preme la sigaretta sul dorso. Dalla parte della brace. Lei fa per ritrarla, ma lui la trattiene. Lei geme per il dolore. O, meglio, geme immaginando il dolore. Perché non ne prova.
Fissa l’uomo che le sta di fronte con bocca e occhi spalancati. Lo stupore lascia spazio alla consapevolezza. L’aveva capito, in fondo, sin dal primo momento in cui ha rivisto Walter. Che non è il Walter degli ultimi anni, quello fiaccato dal tumore, ma bello e forte come quando l’ha conosciuto.
«Sono…» fa per chiedere. Ma è una parola troppo difficile da pronunciare.
Non serve, l’uomo annuisce abbassando gli occhi sulle loro mani ancora intrecciate, senza sigaretta, senza nulla che possa più separarli.
«Quando sei caduta» specifica solo. Poi si alza. «Andiamo?»
Si alza anche lei. Non c’è più caldo, pensa. I giorni dell’afa sono finiti.
Sembra il mattino di una di quelle giornate di maggio in cui l’aria che accarezza la pelle rende il mondo un posto meraviglioso in cui stare.
Qualunque mondo sia. Questo o un altro.
L’autore
Giuliano Pasini, 50 anni, è nato a Vignola, cresciuto a Zocca sull’Appennino modenese, e vive a Treviso dove è socio di una delle più importanti agenzie di comunicazione italiane. L’esordio nella narrativa è il concorso on-line “Io scrittore” organizzato da GeMS, a cui partecipa con il suo primo romanzo “La giustizia dei martiri”, poi pubblicato a gennaio 2012 con il nuovo titolo “Venti corpi nella neve” da Fanucci Editore e tradotto anche all’estero. Nel 2013 è uscito “Io sono lo straniero” (Mondadori), seconda avventura di Roberto Serra e nel 2015 “Il fiume ti porta via” (Mondadori), terzo romanzo con protagonista Roberto Serra. Nel 2023 è uscito “È così che si muore” (Piemme) e nel 2024 “L’estate dei morti” (Piemme).
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia