Il reporter dal fronte: «Vado dentro storie e realtà, la telecamera il mio scudo»

Massimo Belluzzo di Zeta Group è stato il primo a filmare l’attacco a Kiev: «Quando lavoro non percepisco il pericolo, me ne accorgo solo riguardando»

Elena Grassi
Massimo Belluzzo, co-fondatore dell’azienda di comunicazione Zeta Group, qui sul fronte di guerra
Massimo Belluzzo, co-fondatore dell’azienda di comunicazione Zeta Group, qui sul fronte di guerra

La passione di raccontare storie: quelle di vite straordinarie che hanno rivoluzionato il mondo, come nel film su Federico Faggin, il fisico che inventò il primo microprocessore, e quelle di vite ordinarie che le rivoluzioni le subiscono, come nei reportage sui cittadini ucraini durante la guerra.

Sono le due anime di Massimo Belluzzo, 54 anni, co-fondatore con Luca Pinzi dell’azienda trevigiana di comunicazione Zeta Group e produttore dei progetti audiovisivi. Dopo aver omaggiato i grandi geni dell’arte veneta con i film su Tiziano e Tintoretto, Belluzzo ha voluto portare alla luce la storia, meno nota, di un altro genio del territorio, il vicentino Federico Faggin, nel documentario “L’uomo che vide il futuro”, andato in onda su Rai3 e ora disponibile su Raiplay.

Belluzzo, com’è nata l’idea lavorare su Faggin?

«Da una chiacchierata con Marcello Foa, che su Rai Radio 1 conduce il format “La maschera” e ci fece sapere che una delle puntate più seguite è stata proprio quella con l’intervista a Faggin. Non molti sanno che se oggi possiamo usare agevolmente uno smartphone è grazie a lui, e meno ancora sanno che è veneto. La sua storia meritava di essere raccontata e così siamo partiti per Palo Alto in California a incontrarlo nell’agosto 2024».

Come si compone il documentario?

«Faggin, ottuagenario estremamente schivo, grazie al feeling con Foa ha accettato di farci filmare il suo archivio personale con le foto di famiglia, e poi si è prestato con la moglie e la loro figlia a una lunga intervista. Nel montaggio di Paolo Guerrieri sembra che queste tre voci stiano dialogando, dando la sensazione a chi guarda il documentario di essere lì al tavolo con loro e partecipare alla conversazione».

Cosa l’ha colpita di più della sua storia?

«Due aspetti soprattutto: la sua umiltà e il ruolo della moglie nella sua vita. Faggin è considerato il più grande scienziato italiano dopo Enrico Fermi, Bill Gates riconosce che è stato lui ha dare il via all’età informatica, nonostante ciò rimane riservatissimo, un veneto della generazione “fa e tasi”. Umile al punto che quando la Intel provò a negargli la paternità dell’invenzione del microprocessore fu la moglie Elvia a impegnarsi nella battaglia legale durata 20 anni e alla finte vinta».

Spostandoci invece sull’altro fronte del suo impegno produttivo, da quando siete presenti in Ucraina?

«Quella di Zeta Group è stata l’unica troupe presente a Kiev il 23 febbraio 2022 quando è scoppiata la guerra, perché tutte le altre erano nel Donbas. Il primo incarico come service ci fu commissionato da Maria Grazia Fiorani del Tg3, e poi arrivò Massimo Giletti che voleva fare la prima diretta nelle televisioni italiane dal fronte ucraino per la sua trasmissione “Non è l’arena” su La7. Nel tempo siamo diventati una squadra di cinque operatori, che si alternano periodicamente fornendo le riprese principalmente a Tg1, Tg3 e Rai News».

Che sensazioni si provano a lavorare sotto le bombe?

«Per quanto mi riguarda uso la telecamera come uno schermo che inibisce la percezione del rischio, e solo dopo, quando smetto di filmare, mi rendo conto che è in gioco la vita. Però prevale il mio desiderio profondo di raccontare la verità, la mia anima da reporter, che fin dagli esordi negli anni Novata mi ha portato in zone pericolose, come la volta che documentai, sfuggendo ai controlli, lo sfruttamento minorile di una miniera in Bolivia».

Che tipo di narrazione emerge dalle vostre immagini?

«Lavorando con Stefania Battistini del Tg1 abbiamo riflettuto sul ruolo giornalistico nei Paese di guerra e siamo giunti alla conclusione che il nostro compito è quello di raccontarne la parte umana, ovvero come viene vissuto il conflitto dai soldati, dai civili, da chi non vuole o non può scappare e resta a combattere per la giustizia: a noi spetta mostrare il lato emotivo della situazione. Inoltre la stampa internazionale garantisce una sorta di terzietà rispetto alla propaganda dell’una e dell’altra parte, che ad esempio voleva negare l’attacco con un missile a una caserma di Odessa con 80 soldati di vent’anni. Abbiamo documentato l’accaduto e poi sono uscite le agenzie in tutto il mondo».

Come avete fatto con il vostro marchio, la “Z”, che è anche il simbolo sui carrarmati di Putin?

«Quando siamo tornati con Giletti in Ucraina la seconda volta, siamo passati a prenderlo all’aeroporto di Bucarest e ci siamo presentati con le nostre magliette “Zeta”. Appena ci ha visti ci ha accolti con un “ma che c... fate?”. Abbiamo oscurato subito il marchio con il nastro adesivo, altrimenti saremmo stati dei bersagli viventi!».

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