Diego Ponzin, il medico artista: «I miei 31 anni alla Banca degli occhi»
Storico direttore della fondazione che ha sede a Mestre, ne è ora il presidente. Oculista di grande fama, scrive e suona: «Le passioni? Fonti alternative di felicità»
Lo storico direttore della Banca degli occhi del Veneto, Diego Ponzin, è in pensione dal primo dicembre. Ma la sua avventura al padiglione Rama dell’ospedale dell’Angelo di Mestre è tutt’altro che conclusa. È stato nominato presidente della fondazione, che opera da decenni per ridare la gioia di vedere attraverso il trapianto, la ricerca e la cura delle malattie oculari. Un’assoluta eccellenza del panorama nazionale: basti pensare che due terzi dei tessuti necessari agli interventi in tutta Italia partono proprio da Mestre.
Dottore, è in pensione ma lavora come prima…
«Per il momento è una pensione più virtuale che reale, ma con il tempo cambierà».
Continua anche a visitare.
«Ho chiesto di poterlo fare, lo faccio in forma gratuita per l’ente. È un lusso poter seguire persone con problemi gravi, più libero da condizionamenti di tipo economico».
Ha sempre sognato di fare il medico?
«No, mi sono innamorato della medicina a 22 anni, quando ho incontrato il professor Alessandro Bruni. All’epoca facevo il tecnico di laboratorio alla Fidia Farmaceutici. Lui, oltre a essere docente all’Università di Padova, era consulente di Fidia. Ho iniziato a lavorare per lui, quasi di nascosto dai miei capi. Mi davo da fare, ma una volta mi disse: “Senza laurea non andrai da nessuna parte”».
Quindi?
«Ho iniziato a fermarmi in biblioteca a studiare, mi piaceva un sacco. Un giorno ho chiesto un permesso e sono andato a iscrivermi a Medicina. Ho studiato senza mai smettere di lavorare».
Come è arrivato alla Banca degli occhi?
«Per caso. Un conoscente, che era amico di Paolo Rama, mi disse che il padre Giovanni (fondatore della Banca, ndr) cercava un biologo per aprire un laboratorio. In quel momento ero disoccupato, la Fidia aveva avuto una grossa crisi. Ho conosciuto Paolo Rama, gli ho detto che non ero biologo ma avevo lavorato in laboratorio. Mi ha presentato suo padre, con cui ho fatto uno dei colloqui più bizzarri della mia vita, tra un intervento e l’altro. Così è cominciata».
Era il ’93, da allora la Banca è cresciuta.
«Fino a lì le poche attività di banca si facevano in una saletta vicino alla sala operatoria dell’ospedale Umberto I. Con il primo finanziamento importante, procurato dal presidente di allora Piergiorgio Coin, sono stati acquisiti locali vicino all’ospedale e abbiamo allestito i primi laboratori. Il grande salto c’è stato con il passaggio all’Angelo, che ci ha dato una collocazione più chiara: noi facciamo un’attività di tipo sanitario, e soprattutto lavoriamo con la sanità pubblica. Oggi la Banca è una realtà importante, lavoriamo con 15 regioni nel campo dei trapianti, quattro regioni che non hanno una banca mandano a noi i tessuti raccolti. Abbiamo relazioni stabili con 300 chirurghi e una ventina di Paesi in tutto il mondo».
Lei avrebbe potuto lavorare nel privato, perché ha scelto di restare?
«La medicina privata, legittima e anche valida, deve generare un profitto. Nella sanità pubblica il profitto si deve misurare in salute. Mi trovo bene con questo approccio».
Qual è stato il suo contributo al progresso dell’oculistica?
«Di una idea, forse la meno appariscente, vado orgoglioso. Quando ho iniziato c’era un problema enorme di liste d’attesa, a cominciare dal polo di Mestre dove Rama aveva più di tremila persone in attesa di un trapianto. Poi sono iniziati ad aumentare anche i chirurghi che chiedevano cornee. Penso di aver intuito giusto nel darmi da fare per avere più cornee nel tempo più breve possibile».
Come?
«Nel’97 sono andato negli Stati Uniti e ho cominciato a frequentare la Società americana delle banche degli occhi. In cinque anni abbiamo importato almeno 5 mila cornee che ci hanno consentito di fare trapianti in tutta Italia. Nel frattempo qui sono cresciute le donazioni e ora siamo noi a esportare. Credo sia figlio di quella scelta».
La soddisfazione più grande?
«Viene dai pazienti. Recentemente abbiamo ridato la vista a una signora polacca, è tornata a trovarci con sua figlia che si è inginocchiata davanti a me e voleva baciarmi le mani. Sono cose forti».
Lei si sveglia presto, si allena, studia, visita, partecipa a convegni in tutto il mondo, suona il basso, scrive libri. Le nostre giornate durano 24 ore, le sue?
«Sempre 24, purtroppo (ride, ndr). Cerco di capitalizzare bene il tempo, è un vantaggio che mi porto dietro dagli anni dell’università».
Ha anche una famiglia.
«Certo, ma qui bisognerebbe chiedere a loro. La famiglia è una situazione dinamica, interessante. Stimolo, motivazione, a volte rifugio».
Che ruolo hanno le passioni – musica e scrittura – nella sua vita?
«Sono fonti alternative di felicità, che raccomando a tutti. Averne solo una è rischiosissimo».
Pensa di dover ringraziare qualcuno?
«Mio padre, che mi ha trasmesso il senso del dovere. E il professor Bruni, perché un mentore non si ferma all’aspetto professionale: di me lui sapeva tutto».
Un sogno nel cassetto?
«Mi piacerebbe cambiare la fisionomia istituzionale della Banca, lo merita».
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