Dario Meneghetti, l’ex tenore malato di Sla che parla con gli occhi
Poeta e scrittore veneziano, si racconta con un pc. Ama la vita e scherza con la morte: «Il suicidio assistito è un diritto inalienabile»

A volte la vita non ti sorride, allora tocca a te sorridere alla vita e correre veloce. Come gli occhi di Dario Meneghetti, veneziano doc, 55 anni, da 12 malato di Sla. Corrono più veloci del puntatore ottico del suo pc con cui parla e interpreta il mondo. Silente, dopo che la sua bella voce tenorile ha riempito teatri, calli e campielli di canti, beffe e risate. E immobile, ma non per questo chiuso al dialogo. Anzi.
Chi è oggi Dario?
«Sono una multinazionale di problematiche esistenziali irrisolte. Ho la fortuna di avere tante persone che mi stanno vicine e mi spronano a perseguire i miei sogni e le mie ragioni di vita: la scrittura, la poesia, l’arte in generale. Mi tengono compagnia mandandomi audio con letture, venendo a trovarmi e suonando per me – come Luca Minardi -, si intrattengono in lunghe chat, continuano a presentare, come Guido Caserza, i miei libri. Tutti insieme, con Bruna (Graziani, ndr) come riferimento, hanno costruito una fortezza attorno al mio destino».
Chi è stato Dario?
«Sono stato un pagliaccio professionale che incantava se stesso con sogni a occhi aperti. Tra alti e bassi, ho sempre lavorato sodo per arrivare dove volevo. Il canto è stata la strada. Quando tornavo da scuola a Venezia, mi sentivano intonare arie d’opera e altri brani. Sapevano che passava Meneghetti. Il percorso non è stato semplice, ma ho avuto bravi maestri e alla fine sono contento dei risultati che ho ottenuto, prima col coro Athestis e poi con quello della Fenice. Ho girato il mondo e lavorato con alcuni dei più grandi direttori d’orchestra, come Muti e Maazel. Contemporaneamente la scrittura continuava a rimanere in me. Con alcuni amici ho fondato la fanzine Limbranauta, una rivista che raccoglie contenuti poetici, che scardinano regole semantiche e sintattiche. Ogni volta che si crea qualcosa, lo si fa per l’istinto a giocare. E la poesia è una forma di gioco».
Perché raccontarsi in un libro?
«Mi sono raccontato dove potevo esprimere le sfaccettatura improbabili che bersagliavano la mia esistenza. Ho scritto sempre e ovunque, nelle salviette dei bacari, nelle tovagliette, in qualsiasi pezzo di carta potesse accogliere i miei versi, mozziconi di frasi che avrebbero potuto diventare poesie o chissà cosa. L’importante era scrivere. Era un bisogno fortissimo. Così è nata anche “Una pinta di nuvole” (Ronzani editore), un’esperienza che è stata il culmine di un sogno che inseguivo da più di trent’anni, ma che solo la Sla mi ha dato la forza di realizzare. Un sogno gigantesco, in cui raccontare un mondo scomparso. Venezia era ancora un paradiso fantastico con i suoi abitanti, la città pareva sempre casa tua. Adesso gli abitanti non ci sono più e ti senti ostaggio degli stranieri. Ecco, io volevo raccontare la Venezia dei tempi migliori e solo un libro poteva permettermi di farlo; o un film. Il libro l’ho fatto, grazie alla costanza di Belinda che ha seguito le prime stesure incitandomi a proseguire, e soprattutto di Bruna che per mesi ha lavorato al mio fianco. Ma tanti hanno contribuito all’operazione: Simona Mirata, Maria Cristina, per citarne solo alcune… Anche un film potrebbe essere un’idea. E nemmeno tanto lontana. Qualche progetto c’è in campo, grazie all’interessamento di Paola Severini Melograni che nel 2023 mi ha fatto partecipare alla sua trasmissione su Rai2, “O anche no”».
Le sue poesie sono diventate il podcast “Barone rotto”. Da chi è nata l’idea?
«Non sapevo neanche cosa fosse un podcast o come si realizzava. L’idea è l’evoluzione di una delle tante che abbiamo avuto Bruna e io e che si è trasformata grazie all’intuizione di un amico straordinario, Enrico Masiero, collega del coro della Fenice. Con Bruna ha fatto una selezione di poesie e poi ha creato la struttura musicale di sottofondo, coinvolto i colleghi della Fenice per la registrazione e la lettura, il coro degli alpini e lo scrittore di montagna Antonio Bortoluzzi che si è prestato a leggere un brano. L’effetto è incredibile».
Lei che ha una vitalità incredibile, cosa pensa del suicidio assistito?
«La mia vitalità mi ha portato a fare una vita spericolata. Ho cantato e ora scrivo. Che in questi ultimi anni l’abbia fatto con gli occhi, per me è un dettaglio. Per quanto riguarda il suicidio assistito penso sia un diritto inalienabile e comodo per togliersi dai c… di mezzo. Io ho già preparato la mia epigrafe: suicidario Meneghetti, imbranauta così, fino alla morte perché questa è l’unica coerenza che conosco».
Cosa le manca della vita di prima?
«Le parole, respirare autonomamente, la luce del giorno, l’aria sulla pelle, le costicine con il prosecco, la mia carrozzella. E sogno di rivedere la mia città: Venezia».
Cosa apprezza della vita di oggi?
«La quiete nella tempesta, l’amore che avevo deciso di non permettermi più. La malattia mi ha fatto conoscere un altro me stesso. Il più importante».
Progetti?
«Molti, naturalmente. Ho anche in progetto di diventare sindaco di Venezia, ad esempio! E poi di pubblicare un altro libro che sto già scrivendo da un anno a questa parte. Sto seguendo la sceneggiatura di un video sulla mia vita che vogliono realizzare Bruno Trangoni (scrittore e organizzatore di rassegne cinematografiche) con tutti i miei amici, Diego Revilla, Beppe Barutti, Michele Zanon, quelli che mi conoscono davvero e da sempre. Continuo a scrivere poesie e a fare altri progetti. Sono tutte queste cose, amici, progetti, vicinanza, affetto che mi fanno andare avanti, per arrivare a tutti, il più a lungo possibile, il meglio possibile, senza pensare alla Svizzera».
La ricerca è la nostra speranza di vita

«La ricerca per la Sla è un mazzo di carte bianche», osserva Meneghetti, «Nessuno punterebbe i soldi con queste carte. Ci devono essere ragioni sociali che spingano le sue vele. I decessi riferiti alla Sla sono pochi (in Italia siamo circa 3500) per prendere decisioni importanti sugli investimenti per la ricerca, che è l’unica nostra speranza di vita. C’è molto da fare».
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