Mussolini alla Mostra del Cinema, «figlio del secolo» ma così tremendamente attuale
La serie tratta dal romanzo di Antonio Scurati, presentata Fuori Concorso: «Il fantasma del fascismo si aggira in Europa»
Il profilo di Benito Mussolini si inerpica su un enorme braccio teso nel gesto del saluto fascista. Fin dal suo manifesto, “M. il figlio del secolo” – la serie tratta dal romanzo di Antonio Scurati, presentata Fuori Concorso – annuncia l’ascesa irresistibile del Duce. Che sembra quasi risalire il passato e la storia per tornare lì, davanti alle linee moderniste del Palazzo del Cinema che, inaugurato nel ’37, fu inizialmente vetrina fascista.
Lui, Mussolini: l’uomo più amato e odiato della storia d’Italia. Come sbraita, nella prima sequenza della serie, la voce di Luca Marinelli (interprete gigantesco, mai fagocitato da una mimesi macchiettistica, ingrassato per il ruolo fino a essere irriconoscibile): «Mi avete amato follemente, per vent’anni mi avete adorato e temuto come una divinità. E poi mi avete follemente odiato, perché mi amavate ancora. Mi avete ridicolizzato, scempiato i miei resti perché di quel folle amore avevate paura. Anche da morto. Ma ditemi a cosa è servito. Guardatevi intorno … Siamo ancora tra voi».
Un avvertimento che le opere della Mostra di quest’anno hanno percepito e raccontato, con forme e linguaggi diversi, partendo dal passato per arrivare al presente e, poi, ancora, tornare al nucleo seminale. Le guerre mondiali sullo sfondo dei film di Amelio e Delpero ne sono il portato storico più evidente e devastante.
Così come l’Olocausto da cui fugge il protagonista di “The Brutalist”, fomentato anche dalla propaganda cinematografica di Leni Riefenstahl, nel doc a lei dedicato. Autoritarismi che hanno attraversato il tempo e lo spazio (con il ricordo dei desaparecidos brasiliani di Salles) e sono arrivati fino a oggi, acconciati da suprematismo bianco (“The Order”, “Homegrown”), fino a intossicare le nuove generazioni, come per i protagonisti di “Familia” e “Jouer avec le feu”, rovinati dall’odio.
Figli del secolo, di questo come dello scorso. Come fu Mussolini che ripete: «sono come le bestie, sento il tempo che viene. E questo è il mio tempo».
Gli otto episodi di “M” (su Sky nel 2025) sono diretti da Joe Wright, capace di realizzare un’opera techno-pop, incalzante, rutilante, rischiosissima. Perché, nella prima parte, la seduzione e il magnetismo di Mussolini sono quasi schiaccianti attraverso quel dialogo diretto (sguardo, complice, in macchina) che il Duce intrattiene con lo spettatore.
Il carisma di Mussolini tracima e invade la sala, mentre lo si vede fiutare quel secolo, cercare il polso della folla, arringare i “cani fascisti”, sedurre le donne (la moglie Rachele, l’amante veneziana Margherita Sarfatti, Ida Dalser confinata in manicomio) e detronizzare il Vate D’Annunzio ( Paolo Pierobon). Fino alla svolta, anche estetica, rappresentata dall’omicidio Matteotti.
Da qui in poi lo sguardo di Wright si imputridisce, si monda dal sospetto di correità: la distanza da Mussolini ora è incolmabile con la moglie del socialista assassinato (uno splendido cameo di Elena Lietti) che diventa incubo, fantasma, ossessione.
“M” è un’opera storica pensata e realizzata come contemporanea, che si ispira al cinema di Vertov, a “Scarface”, alla cultura rave degli anni ’90, in un collage tra bianco e nero e colori acidi estremi e una colonna sonora debordante (composta da Tom Rowlands dei Chemical Brothers). Un adattamento che Antonio Scurati, autore del libro, giudica naturale.
«Era fondamentale raccontare il fascismo con uno sguardo nuovo, per tutti, ma sempre anti-fascista. Perché il romanzo, come il film, è democratico, in quanto forma d’arte popolare, per coinvolgere e mobilitare le coscienze dei lettori e degli spettatori, per far loro capire quale seduzione potente ci fosse nel fascismo di 100 anni fa e, infine, per alimentarne la repulsione. Lo spettro del fascismo si aggira ancora per l’Europa, ma non sono stato io né Joe Wright ad evocarlo. Sono altre forze storiche a chiamarlo. Ciò che l’arte democratica e antifascista può fare non è evocare lo spettro, ma disperderlo».
Per Luca Marinelli è stata una sfida anche interiore: «Da antifascista temevo il ruolo ma poi ho capito che poteva essere un modo per assumersi una piccola responsabilità storica. È stato un percorso doloroso sospendere, sul set, il giudizio su Mussolini che era un uomo e un criminale, non un diavolo o un pazzo, etichette che ci fa comodo usare per allontanarlo da noi».
La sua arringa finale in Parlamento segna l’inizio della dittatura e la fine dell’ultima puntata: il silenzio di chi poteva fermarlo si fa più assordante dell’urlo di guerra «Eia! Eia! Alalà!». —
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