Panatta: «È sempre la politica a sfruttare il mondo dello sport, mai il contrario»
L’ex campione di tennis, ospite di Link Media Festival a Trieste sabato 7 settembre, parla di Olimpiadi e della Coppa Davis
Adriano Panatta entrò nella leggenda nel 1976. Vinse Internazionali d’Italia, Roland Garros e Coppa Davis. Quest’ultima in un clima rovente dal punto di vista politico: la finale si doveva disputare nel Cile di Pinochet e c’era un grande movimento che premeva per il boicottaggio. I tennisti azzurri andarono, e lui ebbe l’idea di contestare il regime con un gesto dirompente, indossando una maglietta rossa. Panatta sarà ospite di Link a Trieste, sabato 7 settembre, in piazza Unità d’Italia, con inizio alle 17.30. Iscrizione gratuita a questo link
Schietto e diretto – ma sempre garbato – Adriano Panatta ha le idee chiare: i social hanno fatto molto male alla narrazione dello sport. Le bufere social sono entrate dentro le notizie, ma nello sport la competenza conta e così l’equilibrio con cui parlare di quello che succede sui campi da gioco. L’ex numero 4 al mondo e a lungo il più forte tennista in Italia dialogherà con Fabrizio Brancoli, vicedirettore del gruppo Nem, alla Link arena in piazza Unità a Trieste sabato 7 settembre alle 17.30.
Campione e commentatore sportivo «dissacrante» – la definizione è sua –, non le manda a dire quando viene sollecitato sulle intersezioni tra sport e politica, emerse nelle Olimpiadi di Parigi e vissute anche da lui in prima persona all’epoca della Coppa Davis vinta nel Cile di Pinochet.
Panatta, l’Olimpiade ci ha dato molto da pensare. La narrazione dello sport è stata molto discussa. Penso alla polemica sui quarti posti... Come si racconta una sconfitta sportiva?
«Con grande rispetto verso l’atleta, che mi sembra che in qualche caso non ci sia stato. Chi scrive forse non sa quanto sia difficile arrivare quarti a un’Olimpiade. L’ho trovato di cattivo gusto. Va sottolineato che non tutti ne hanno parlato così, solo qualcuno. La risposta più giusta l’ha data Mattarella, invitando anche chi ha raggiunto il quarto posto al Quirinale».
Seguendo la polemica sui social, a un certo punto i giornalisti venivano criticati per qualsiasi domanda posta a chi per un soffio aveva mancato la medaglia...
«Lasci perdere i social. I famosi hater sono gente frustrata, che vive il successo e le vittorie come una loro sconfitta e si sfoga sui social. Basta non dargli retta. La comunicazione va fatta da giornalisti e da esperti».
Queste Olimpiadi hanno per l’ennesima volta messo alla ribalta l’incrocio tra sport e politica. Per esempio Emmanuel Macron ha puntato sulla buona riuscita dell’evento sportivo per rafforzare il suo standing, o si pensi al caso di Imane Khelif...
«Ma scusi che cosa dovevamo pensare? Che Macron dovesse organizzare un’Olimpiade dimessa? La grandeur fa parte della mentalità francese. Secondo me è stato tutto molto bello a parte il discorso della Senna, potevano farne a meno. Quando vedevo questi poveretti che nuotavano nella Senna mi facevano un po’ tenerezza. Io non mi sarei tuffato».
E sulla pugile algerina?
«Mi ha fatto molta pena questa ragazza, si è trovata in mezzo a un bailamme esagerato. Hanno creato un caso».
L’incrocio di politica e sport l’ha vissuto anche lei da sportivo in Cile nel 1976...
«Erano anni diversi, la nostra è stata una protesta un po’ sottile quando entrammo in campo con la maglietta rossa contro Pinochet. Tanto che i giornalisti non la capirono, l’hanno scoperto dopo 30 anni quando l’abbiamo raccontato. Ma ora le dinamiche sono diverse».
Quali sono?
«Sport e politica adesso convivono con grande ipocrisia. Gli atleti russi non hanno potuto partecipare alle Olimpiadi, se non con una bandiera quasi apolide... O a chi non ha potuto esprimersi sulla Palestina. È una mancanza di libertà. La politica si ricorda dello sport quando le interessa per certe cose. Non è mai lo sport che sfrutta la politica. E non vedo perché lo sportivo si debba astenere da esprimere la propria opinione. Il mondo dello sport è sempre stato ipocrita».
Come mai?
«Lo si vede anche nelle trasmissioni televisive. Uno ha paura di dire qualsiasi cosa verso un giocatore, un allenatore, una squadra. Soprattutto nel calcio. Le risposte sono banali».
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