Dispacci e telegrammi l’angoscia dell’alluvione
L’acqua alta sotto vetro, illuminata dai faretti, racconta di navi cariche di banane mandate dalla Somalia e di cartoni di carne congelata inviati dall’Argentina per sfamare i veneziani rimasti senza gasolio; mostra i telegrammi sempre più concitati che i sindaci dei comuni della provincia spedirono alla Prefettura chiedendo sacchi di sabbia, poi l’intervento dei vigili del fuoco, e via via, con angoscia sempre maggiore, i mezzi anfibi, altri soccorsi, fino a all’ultimo fonogramma, quello che fa venire ancora la pelle d’oca: i paesi devono essere evacuati, ce ne andiamo.
Si intitola “Venezia 1966-2016. Dall’emergenza al recupero del patrimonio culturale. Storie e immagini dagli archivi della città” ed è la mostra che da oggi al 27 novembre, nelle Sale Monumentali della Biblioteca Marciana, consegna documenti, fogli, annotazioni, dispacci, resoconti su quello che accadde la notte dell’acqua grandissima. Non tanto le immagini di quello che tutti videro, ma il lavorio delle macchine da scrivere, i comandi degli uomini, le telefonate affannate, le mani tra i capelli, la stanchezza, il cuore stretto di coloro che dovettero decidere.
La retrovia dell’alluvione è una miscellanea di carta ingiallita che dice cose straordinarie, come spiega con passione Alessandra Schiavon, funzionaria dell’Archivio di Stato e curatrice della mostra resa possibile grazie alla collaborazione di molti enti, tra cui i Comitati privati di salvaguardia, Italia Nostra e Unesco. Bacheca dopo bacheca, si scopre così che la macchina degli aiuti internazionali si mosse poche ore dopo e che, dopo una decina di giorni, fece arrivare a Venezia 200 quintali di banane spedite dall’Africa, casse di baccalà da Oslo, patate dalla Polonia, burro e zucchero dall’allora Urss e vagonate di biscotti dalla Francia. Ma arrivarono anche risme di carta assorbente che, insieme al talco, servì a far asciugare i seimila pezzi tra protocolli notarili e documenti austriaci dell’Archivio che finirono sott’acqua.
Tra i documenti inediti, anche la lettera scritta dal grande storico americano Frederic Lane su ciò che vide, attonito, la mattina del 4 novembre dalla finestra del primo piano della Pensione Seguso, alle Zattere; o il disegno di una bambina di Croce di Musile che, da un’altra finestra, ritrae le case del proprio paese che emergevano come isolotti dal Piave: il disegno divenne poi un biglietto di auguri di Natale inviato al prefetto.
Nelle dodici vetrine della mostra ogni documento, anche l’ultimo semplice foglio a righe, assume un rilievo a se stante. È un lembo di storia, un fotogramma irripetibile, un cammeo della paura di fronte a quella montagna d’acqua che entrò in città e sembrò non volersene più andare, mentre il cielo sopra la laguna si chiuse e il barometro scese in picchiata.
Nel marasma, tutto si mosse con una rapidità, come testimonia il verbale del primo Consiglio Comunale convocato per le 12 del 5 novemebre, sindaco Giovanni Favaretto.
Tutti, allora, fecero quel che poterono, inclusa Skopje, la capitale della Macedonia, che raccolse 5 milioni di lire con una colletta tra i suoi abitanti. Il 14 dicembre 1966 l’Unesco si riunì su richiesta del governo italiano e mossero i passi i primi comitati privati i cui interventi, attraverso un video, illuminano insieme alla città il fotopiano di Venezia: 924 restauri in cinquant’anni, 18 all’anno, uno e mezzo al mese.
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