"Più flessibilità per rilanciare i consumi"

L'intervista a Beraldo (Coin): solo così la produttività delle aziende cresce e con questa i salari. Oggi le grandi imprese non traggono vantaggi dalla Biagi: siano i singoli lavoratori ad accettare o meno l’elasticità degli orari
«Situazione dei consumi parecchio pesante, legata alla consapevolezza della compressione in cui versano salari e stipendi, nessuna previsione di un’inversione di tendenza nell’arco di sei mesi o un anno». E fin qui l’analisi di
Stefano Beraldo
, 51 anni, mestrino,
amministratore delegato di Coin
dopo esserlo stato di De’ Longhi, è in linea con il sondaggio svolto nell’ambito di One, il panel sulla classe dirigente veneta messo a punto dalla Fondazione Nord Est per la Nuova Venezia, il mattino di Padova e la tribuna di Treviso. Ma è sul legame tra consumi e potere d’acquisto da una parte, e produttività delle imprese e del sistema economico dall’altra, che l’analisi del manager offre un’interpretazione interessante.



Il campione individua un legame tra lo stallo degli stipendi e lo scarso incentivo per gli imprenditori all’aumento dell’efficienza. Lei che ne pensa?

«Siamo inseriti in scenari internazionali tali, che i livelli salariali sono legati a dinamiche di respiro altrettanto globale. Il singolo imprenditore, nello specifico quello del Nordest, non decide se accelerare o meno sul fronte della produttività a seconda della pressione di salari e stipendi. D’altro canto le statistiche dicono che il costo del lavoro in Italia non è significativamente più basso che negli altri Paesi europei. E se il netto in busta paga è basso, è a causa dell’alto prelievo fiscale e contributivo. Secondo me il legame tra produttività e consumi esiste, ma è di genere un po’ diverso».


Vale a dire?

«Cominciamo col dire che ogni possibilità di ripresa economica in Italia dipende da una maggiore vivacità della domanda. Puntare su investimenti produttivi o magari su incentivi alla ricerca non funzionerebbe con la stessa velocità, perché entrambi sono fattori competitivi di medio-lungo periodo. Ma come si fa ad accrescere la domanda, cioè come si fa ad aumentare il potere d’acquisto delle famiglie? Secondo me solo con un balzo della produttività conseguito attraverso una maggiore flessibilità. In pratica le aziende debbono essere messe in grado, attraverso uno scambio contro denaro centrato sulle scelte del singolo dipendente, di ottenere prestazioni lavorative nell’esatto momento in cui lo impone la domanda. Oggi questo non avviene».


Che benefici ne deriverebbero?

«Una maggiore produttività delle aziende, quindi maggiori profitti da reinvestire e maggiori salari da attribuire ai lavoratori che liberamente accettassero quello scambio. Quindi, attraverso più potere d’acquisto, maggiori consumi. Chiaramente questo ragionamento può dispiegare appieno la sua forza se la politica mette mano al macro-problema del divario tra costo del lavoro all’impresa e salari netti. Ormai tutti pensano che sia una priorità, auguriamoci che dopo le elezioni si inizi a provvedere».


Più produttività attraverso maggiore flessibilità, dice lei. Ma c’è la legge Biagi che ha già iniettato flessibilità nel sistema, e le piccole medie aziende del Nordest sono flessibili per definizione. Non basta?

«Le grandi imprese non stanno traendo beneficio dalla Biagi, che regola la gestione di gruppi di persone, non degli individui. Se, poniamo, le aziende girano a pieno regime a Natale e non a Ferragosto, bisognerebbe poter disporre di maggiore forza lavoro nel periodo in cui quest’ultima rende di più. Scelga il singolo lavoratore se dire sì o no alla flessibilità di orari proposta dall’azienda, dico io, e il sindacato si occupi semmai della contrattazione integrativa di gruppi di lavoratori».


Obiezione. I sindacati direbbero che così si favorisce la precarietà.

«No. Se ottenessi le ore che mi servono nel momento in cui effettivamente servono, potrei trasformare i miei atipici in lavoratori a tempo pieno».


Invece ora che succede?

«Che l’impresa deve pretendere più ore ma spalmate in modo indifferenziato. Dalla minore produttività che ne consegue, derivano paghe orarie ferme. Si contratta ma solo per recuperare l’inflazione. Così salari e stipendi progrediscono in modo aritmetico, non geometrico».


È per questo che la curva dei consumi resta piatta?

«Anche per questo. E poi dall’ottobre scorso in qua istituzioni e mass media hanno cominciato a sottolineare che salari e stipendi in Italia sono bassi, fra l’altro sotto il peso crescente dei servizi a tariffa. Era vero anche prima, ma la consapevolezza ha impresso un colpo di freno ai comportamenti di spesa».


Siamo alla vigilia delle elezioni. Il giorno dopo cosa bisognerebbe fare?

«La mano pubblica dovrebbe ridurre il cuneo fiscale e aumentare le pensioni. Ma soprattutto introdurre meccanismi incentivanti, defiscalizzandone i risultati incrementali. Nel lavoro, come abbiamo detto. Ma la politica dovrebbe anche favorire gli investimenti intelligenti, in grado di creare profitti aggiuntivi. Serve capacità di discernimento: non agevolare chi produce mutande, perché quelle occorre produrle in Bangladesh, ma chi investe, faccio un esempio, in motori a basso inquinamento. Niente contributi monetari, le agevolazioni fiscali a posteriori sono più efficaci e prestano meno il fianco ad abusi».


Gli imprenditori cosa possono fare?

«Investire nell’impresa, e gli imprenditori veneti già lo fanno. In azienda bisogna avere fiducia nella capacità da parte di determinate azioni e strategie di scardinare la mera contabilità delle perdite attese, la loro apparente ineluttabilità».


Basta tutto ciò al Paese?

«Il Paese è stanco e disilluso. Dobbiamo uscire dal periodo preelettorale, ma anche smetterla di autoflagellarci. Pensiamo alle potenzialità dell’Expo, ricreiamo un alone emotivo intorno alle nostre scelte economiche. Dobbiamo riprendere a sognare».

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