Parlamentare tunisina cacciata dal bar davanti al Santo
PADOVA. Vabbè il carattere spigoloso e la corrosiva preoccupazione per il bar che da tre anni se la passa male, vabbè la padana diffidenza per non dire intolleranza. Mettici anche il caldo. Ma il gestore del caffè di fronte alla basilica del Santo ce l’ha messa tutta per entrare trionfalmente nella storia, almeno quella delle figuracce. A voler essere diplomatici.
Due giovani e belle signore, una con la hijab (un foulard in testa), giovedì pomeriggio entrano nel suo locale (bar Hausbrandt), siedono a uno dei quattro tavolini interni e ordinano un caffè e due bicchieri d’acqua. Cominciano a parlare, in italiano: discutono, si appassionano, si fanno serie, si confrontano; argomento, la situazione politica tunisina, la nuova costituzione, il ruolo delle donne, la primavera araba. Roba da prendere appunti. Passano un paio d’ore (secondo il barista tre), con loro uniche clienti, quando: «Se non consumate altro, potete andarvene. E poi non mi piace sentir parlare di politica. Se volete parlarne, andate fuori». Complimenti.
Orlando Borsetto, 78 anni, gestore del bar, ostaggio di uno sconfortante botto di nervi, di fronte ad una delle due che pacatamente gli suggerisce di vergognarsi, che quello è un pubblico esercizio, risponde che no, lui è a casa sua. Punto. Le due se ne vanno, basite. Ad essere state cacciate da uno dei bar in piazza del Santo, zona turistica in teoria devota all’accoglienza quasi quanto ad Antonio, sono Leila El Houssi (papà tunisino, mamma siculo-triestina), docente a Sociologia a Padova e a Bologna nonché giornalista per «Yalla Italia», notiziario on line e Imen Bem Mohamed, 26 anni, laureata alla Sapienza a Roma, tunisina. Appena eletta per il partito Ennadha alla Costituente tunisina in rappresentanza degli emigrati in Italia, intervistata dai media planetari, è una di quelle donne che per le mani ha la possibilità di cambiare qualcosa nel futuro del mondo. Una alla quale non è passato per l’anticamera di uscirsene con un «lei non sa chi sono io» come è uso fare mezzo italiano parlamento.
Leila il giorno dopo su «Yalla Italia» racconta la vicenda ma senza citare il locale (che non è stato difficile identificare). Spiega che stava ascoltando Imen, il suo entusiasmo per l’incarico affidatole, «un meraviglioso confronto. E mentre mi trovo immersa in questa dimensione qualcosa ne rompe la profondità: la voce del barista che indisponente dichiara che se non consumiamo altro possiamo andarcene. Gli chiediamo di ripetere. Ripete e aggiunge che oltre al fatto di aver consumato poco, lo infastidiva sentirci parlare di politica. Con sgomento sosteniamo che siamo in un locale pubblico, possiamo parlare liberamente. Risponde che quella è casa sua. Andiamo via. Mi scuso con Imen e mi sento responsabile: Padova è la mia città, dove in ogni angolo incontro qualcuno che conosco, dove a volte anche il sorriso di chi non conosco mi fa sentire a casa. Non posso pensare che sia così cambiata».
Raggiunta poi al telefono a Bologna, dove abita, Leila spiega: «Credevo fosse una candid camera. Io sono legata a Padova, la difendo dalle accuse leghiste, è la prima volta che mi capita un problema. Racconto l’accaduto perchè voglio sensibilizzare la gente. In Italia c’è stato un momento in cui il limite del rispetto è stato oltrepassato. Bisogna ritrovarlo». Pacata, più allarmata e delusa che arrabbiata: «La questione non può essere riconducibile al fatto che parlavamo di politica, è un episodio di intolleranza. E’ questo il nuovo volto della mia città, dove non vivo più da qualche anno?». Quel giovedì, cacciate dal simpatico barista, Leila ed Imen con la hijab sono andate in un altro locale, di cui Leila fa il nome: il CLafé, a due passi. «Al banco un ragazzo e una ragazza ci accolgono con un meraviglioso sorriso. Prendiamo un bicchiere d’acqua e una spremuta, ci dicono che possiamo rimanere anche fino a notte. Ritrovo il calore della mia città e il volto dell’ospitalità».
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