Palude Venezia, Boraso ammette: «Sì, ho fatto pressioni sulle pratiche»
Boraso ammette il conflitto di interessi. In un memoriale spiega: «Ho sollecitato operazioni di miei clienti, travalicando i miei doveri di pubblico amministratore»
«Con il trascorrere del tempo mi sono sempre più reso conto che il mio interessamento e la sollecitazione presso funzionari e uffici comunali, per ottenere informazioni ovvero offrire suggerimenti su questioni tecniche, in varie occasioni ha travalicato la normale attività di un pubblico amministratore, per risultare una personale attivazione nell’interesse di imprenditori con cui avevo rapporti e relazioni amicali e professionali e dai quali - in determinati casi - la mia società Stella Consulting ha ricevuto pagamenti di fatture».
Non chiama mai tangenti i soldi che riceveva dagli imprenditori per i quali si dava un gran daffare in questo o quell’appalto, questo o quel progetto; non si dichiara mai un corrotto, ma nel suo “memoriale” agli atti dell’inchiesta Palude, l’ex assessore Renato Boraso ammette di aver preso soldi da privati.
Scrive, scrive molto l’ex assessore: agli atti c’è una prima lettera scritta a mano quando era ancora in carcere, poi un primo memoriale, infine un secondo. Ogni volta ammettendo un “pezzetto” in più, circostanziando, facendo mea culpa. Testi che venivano intervallati dagli interrogatori (cinque) con i pubblici ministeri Roberto terzo e Federica Baccaglini.
Ora Boraso attende agli arresti domiciliari - era finito in carcere il 16 luglio, per uscirne a novembre dopo le ammissioni - l’udienza del 13 febbraio, quando la giudice per le udienze preliminari Carlotta Franceschetti dichiarerà se ritenga equo il patteggiamento raggiunto tra la procura e l’avvocato difensore Umberto Pauro, per una pena di 3 anni e 10 mesi di reclusione e 400 mila euro di “ristoro” rispetto ai soldi illecitamente incassati dalle aziende.
Potrà approvarlo o rigettarlo e, allora, prenderà il via il processo, fissato per il 27 marzo. Alle pena patteggiata, comunque, andranno ad aggiungersi altri mesi di pena nei procedimenti successivi: l’intesa sinora riguarda solo 12 casi di corruzione, restano fuori le turbative d’asta, l’autoriciclaggio, le accuse di false fatture.
E poi eventuali nuovi casi contestati dalla Procura, nel 415 bis, l’atto che si appresta a depositare per dichiarare definitivamente chiuse le indagini. L’atto che dirà se - per i pm Terzo e Baccaglini - il tentativo di vendere i Pili al magnate Ching Chiat Kwong celi o meno reati che coinvolgano il sindaco Luigi Brugnaro (che ne è il proprietario, attraverso il trust) e il suo staff.
Boraso sul punto è fermo nel suo memoriale: afferma di non essersi mai occupato dei Pili. Sì di rapporti professionali con Claudio Vanin (l’imprenditore che poi ha dato il via all’inchiesta Palude con il suo esposto) ne ha avuti, ma dice di aver saputo delle trattative di vendita dai giornali «e da quanto riferitomi, verso la fine di aprile/maggio 2020 da Vanin.
Le due fatture per 73 mila euro ricevute da una società legata a Vanin e che per la Procura sono una tangente per abbassare il prezzo di Palazzo Papadopoli (da 14 a 10,8 milioni) ed incentivarne la vendita a Ching, per “convincerlo” ad acquistare i Pili, Boraso ha negato ogni illecita mazzetta: «Con Vanin avevo una collaborazione in tutta trasparenza», ha scritto nel suo memoriale, ribadendo che si trattava di fatture per un lavoro di consulenza “vero” per trovare una serie di immobili di pregio nel Veneto: «Non ho minimamente seguito la vendita di palazzo Papadopoli, non ho mai conosciuto Ching. Non ho mai chiamato nessuno per influenzare una procedura d'asta, non ho mai influito sulla diminuzione del prezzo».
Su un altro punto ha voluto esserse pecifico, pur assumendosi le proprie responsabilità: «Non ho mai dato soldi o prospettato dazioni economiche a nessun funzionario pubblico (....) anzi, non sono mancati momenti di contrasto, ad esempio, con l’architetto Danilo Gerotto, direttore dell’area sviluppo del Territorio, ufficio presso il quale spesso si “arenavano” le iniziative degli imprenditori che avevano rapporti professionali con me. Le stesse considerazioni valgono anche per la dottoressa Bolognin, e altri funzionari da me contattati, come il dottor Cattarossi, il dottor Del Mercato, l’ingegner Chinellato o l’ingegner Torricella».
Tra i tanti interventi e interessamenti pressanti, ci sono stati quelli a favore dell’imprenditore Danilo Brichese della Tencofon (per il quale gli avvocati Mandro e Sacco hanno patteggiato con la Procura una pena di 3 anni e 10 mesi, anche loro in attesa di convalida).
Qui Boraso ammette le proprie responsabilità: «Non posso non ammettere che alle richieste di Brichese, che confidava che io gli procurassi più lavori possibili, mi sono attivato contattando soggetti che reputavo potessero favorire l’assegnazione di lavori in subappalto a Tecnofon (....) nel precedente memoriale ho affermato che non vi era da parte mia alcuna finalità corruttiva, intendendo con ciò il fatto che non mettevo in conto di far sì che il signor Brichese mi pagasse affinché dei funzionari pubblici, eventualmente da me pressati o condizionati, gli assegnassero dei lavori pubblici. In realtà, devo ammettere di essere, comunque, illecitamente intervenuto, ovviamente consapevole del mio ruolo e delle mie funzioni, per favorire l’assegnazione in subappalto a Tecnofon di vari lavori».
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