Morìa di “peoci” in mare. Ecco le cause del disastro (e il granchio blu non c’entra)
Arcangeli (Zooprofilattico): «Questi sono effetti del cambiamento climatico. Ora è necessario cominciare a lavorare controllando i dati dei satelliti»
Il gran caldo, il poco cibo e un parassita. Sono le concause che hanno portato alla moria di cozze in alcuni allevamenti a mare di Pellestrina. A individuare i tre fattori sono stati i tecnici dell’Istituto Zooprofilattico di Legnaro coordinati dal dottore Giuseppe Arcangeli, direttore del Centro Specialistico ittico che comprende il Centro di referenza nazionale per lo studio e la diagnosi delle malattie dei pesci, dei molluschi e dei crostacei.
Arcangeli lancia un appello: «Per fare fronte agli effetti dei cambiamenti climatici sul mondo della pesca e dell’allevamento in mare, bisogna creare una rete che metta in sinergia pescatori, veterinari e ricercatori e sfruttare maggiormente i dati provenienti dal satellite».
La morìa dei peoci
La moria di cozze, i peoci in veneziano, si è verificata nelle ultime settimane. Ha riguardato in particolare le cozze arrivate a maturità, cioè quando raggiungevano una lunghezza che varia dagli otto ai dieci centimetri. In certi allevamenti la moria ha riguardato fino un terzo del prodotto.
«Ci sono tre concause che hanno portato a questo fenomeno: il caldo di fine estate, la scarsità di fitoplancton e un parassita che ha approfittato del mitile stressato dai primi due fattori. Se il caldo di fine estate anche in altri anni ha causato una diminuzione del prodotto, non era mai successo che ci fosse la combinazione di questi tre fattori», spiega Arcangeli.
«Un esempio di come i cambiamenti climatici stanno scombussolando anche le regole che governavano da sempre l’allevamento in mare. Per questo è arrivato il momento di fare rete tra chi alleva, la ricerca e le analisi sul campo.
Ma non solo. Il pescatore-allevatore deve abbandonare il concetto che tanto il mare dà sempre qualche cosa e imparare a monitorare l’acqua per leggere certi aspetti fondamentali: dalla disponibilità di cibo per i suoi allevamenti, quanto torbida e l’acqua e seguire la crescita del mitile.
Se non c’è fitoplancton oppure questo c’è a fasi alterne, la cozza non può crescere. Quindi l’allevatore può valutare la possibilità di raccogliere un frutto più piccolo. Almeno raccoglie del prodotto piuttosto che aspettare il completo sviluppo e non trovare nulla all’interno della cozza».
Arcangeli ritiene indispensabile, inoltre, cominciare ad usare i dati del sistema di satelliti che tengono controllato il mare per conoscerne istantaneamente temperatura, torbidità dell’acqua e la quantità di clorofilla. Quest’ultimo serve a capire la quantità di cibo presente nelle acque degli allevamenti.
«La conoscenza serve a crescere e solo una rete di operatori del settore, ricercatori e tecnici delle analisi può garantire tutto questo. C’è la necessità di far partire il centro ittico nella vecchia sede di Veneto Agricoltura di Pellestrina. Diventerebbe il centro di riferimento per tutto l’Alto Adriatico», conclude Arcangeli. —
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