Ma il Nordest può crescere
Angelo Ferro: «I mercati noi andiamo a cercarceli»
Il Veneto che cammina guardando ai mercati esteri, l’Italia resa pesante dalle proprie debolezze. E’ questa la percezione, riportata ieri su
la nuova Venezia
,
il mattino di Padova
e
la tribuna di Treviso
ed emersa dal sondaggio One che la Fondazione Nordest, con il contributo di Intesa Sanpaolo, ha condotto tra un campione di cento esponenti della classe dirigente veneta. Rispondendo ad alcuni quesiti sulla congiuntura, il panel ha sentenziato che esiste un abisso tra la considerazione delle performance del Veneto o del Nordest da una parte, e del sistema Paese dall’altra. Lo stesso campione che attribuisce al Nord Est buone prospettive nei prossimi sei mesi (saldo di opinione pari al 3,1 per cento), condanna l’Italia alla recessione (meno 45,3 per cento). Un divario più accentuato, tuttavia, quando ad esprimersi sono chiamati gli imprenditori veneti.
Come si vede nel
, due su tre sono pessimisti circa le prospettive a 6 mesi dell’economia nazionale.
«Il fatto è - spiega Angelo Ferro, imprenditore a capo della Pavan di Galliera (macchine per la panificazione), già docente di economia industriale all’Università di Verona, membro di consigli di amministrazione di banche (Intesa Sanpaolo) e aziende editoriali (Rcs) - che noi imprenditori ragioniamo su prospettive lunghe. Abbiamo saputo riorganizzarci e ora possiamo guardare avanti con qualche fiducia. La stessa lungimiranza però non appartiene al complesso del Paese e a chi lo governa. Ed è qui che bisogna assolutamente intervenire».
Professore, è l’incertezza che deriva dalla politica a fare la differenza tra la considerazione riservata al Veneto e quella riservata all’Italia?
«Il distacco dalla politica è molto accentuato. Noi imprenditori dopo l’introduzione dell’euro ci siamo mossi in un’ottica di lungo periodo. Si pensi a quante aziende hanno ristrutturato, affrontando i sacrifici necessari in termini di occupazione in modo da poter ripartire. Mi viene in mente la Dè Longhi, ma anche il caso della Pavan è a suo modo esplicativo: tre anni fa abbiamo lasciato a casa 52 dipendenti su 400, in accordo con il sindacato e senza un’ora di sciopero, e ora siamo in grado di riassumere. E’ qui la differenza con la politica, un mondo in cui nessuno risolve i problemi. Napoli è l’effetto di questo atteggiamento, idem i deficit della sanità in Campania e nel Lazio».
E cosa bisogna fare?
«Servono cure da cavallo, non pannicelli caldi. Il mondo dell’impresa ne sa qualcosa, guardiamo a come Bondi è intervenuto sulla Parmalat. La congiuntura è un falso problema, le imprese non si preoccupano più di tanto se è prevista stagnazione, perché i mercati vanno a cercarseli. Io so che anche l’Africa, un continente arretrato, ha aree economicamente molto vivaci. E vado lì a cercare ordini per la Pavan. E il sistema bancario? Quando è servito si è mosso, e ora in Italia esistono due colossi che non temono rivali in Europa. La politica dovrebbe comportarsi allo stesso modo, altrimenti le ragioni della solidarietà, dello stare insieme, verranno sempre più erose».
Qual è il primo problema che dovrebbe risolvere la politica?
«Ce ne sono tanti, a cominciare dal riservare più risorse a chi produce. Ma c’è un problema a mio avviso drammatico: i salari sono troppo bassi, mentre le materie prime rincarano per motivi non speculativi ma per il semplice lievitare della domanda. Questa forbice ridurrà sempre più il potere d’acquisto. A meno che non si aumenti l’efficienza del sistema riducendone i costi».
Siamo nel mezzo di una campagna elettorale in cui gli imprenditori vengono corteggiati a più non posso dalle forze in campo, si pensi solo al caso più eclatante, quella del vicentino Calearo. Lei che ne pensa?
«Potremo dire che il fenomeno è positivo quando sarà provato che queste persone riusciranno a trasmettere una dinamica culturale specifica. Ci vorrà del tempo. Ricorda l’esordio di Forza Italia? All’inizio schierò molti imprenditori, ma con l’andare del tempo sono rimasti soprattutto i professionisti della politica. Insomma aspettiamo, solo così sapremo che quella odierna non è un’operazione di marketing».
Il Nordest, secondo quanto emerge dal sondaggio, ancora una volta dà l’idea di voler e poter fare da solo. Ma è proprio così?
«Non è un approccio campanilistico, il nostro. In Emilia Romagna esiste un contesto ugualmente positivo, in Puglia ci sono imprenditori che hanno saputo gestire la propria presenza nel mondo, come in alcune zone della Sicilia. Laddove si è formata una coscienza del proprio potenziale nel tempo, questo ha dato buoni frutti. Sarebbe economicismo pensare che noi veneti abbiamo solo saputo fare i soldi, non è così, noi abbiamo espresso una cultura della crescita e oggi ne raccogliamo i frutti».
Rischi ce ne sono?
«Secondo me sono connessi alle dinamiche finanziarie. Il fenomeno subprime ci dice che verrà premiato chi è rimasto nel core business, e punito chi ha usato la finanza a fini speculativi. Temo che questa distinzione tra qualche tempo interesserà anche le amministrazioni pubbliche, aspettiamo che certi contratti giungano a scadenza e poi vedremo».
Lei fino a qualche tempo fa ha insegnato all’università. Non ha trovato qualche motivo di ottimismo nel contatto con i giovani?
«Le eccellenze ci sono, ma io avverto la forza inesauribile dei Paesi emergenti. Si dice che la mia generazione si è sacrificata per migliorare, quella successiva ha mantenuto l’agiatezza raggiunta, i giovani invece la dissipano. Il fatto è che i nostri giovani si confrontano con le generazioni dei Paesi emergenti che hanno più fame. I benchmark generazionali ci condannano. Anche per questo credo che la longevità sia una risorsa».
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