L’infermiera padovana che vive nel Sahara: «In Italia siamo circondati da cose superflue»

Paola Pantano: «Lavoravo in ospedale e ho lasciato tutto per vivere in mezzo al nulla. Adesso casa mia è un ambulatorio-farmacia, non tornerei indietro per nulla al mondo»

Laura Berlinghieri

Del Marocco l’hanno conquistata gli spazi immensi, «che ti guardi intorno e non vedi niente». E poi «la luce, diversa da quella che abbiamo in Italia». E la semplicità delle persone, «che ti fa capire che tutto l’ambaradan che ci costruiamo in Europa è superfluo, una costruzione per difenderci dalla noia».

Così Paola Pantano, di Padova, ha deciso di lasciare tutto e trasferirsi in Marocco, nel deserto del Sahara. «Prima con un part time verticale, alternando i mesi di lavoro in Italia a lunghi periodi in Marocco. Poi, appena ne ho avuto la possibilità, sono andata in prepensionamento. Ho venduto la casa e mi sono trasferita».

Dove?

«In un villaggio berbero immerso nel nulla del Sahara. Vivo qui da cinque anni e mezzo. Una cinquantina di case, nessuna struttura sanitaria. Il medico è a Rissani, a 35 chilometri da qui, e il pronto soccorso a Erfoud, a 45, dove c’è anche la banca. Il nostro centro di riferimento è Merzouga, dove ci sono una farmacia e uno sportello per il bancomat».

E nel villaggio?

«C’è lo stretto necessario: una macelleria, dove tre giorni a settimana si trovano anche frutta e verdura, e altri 3-4 negozi per i generi alimentari minimi. Ci si deve accontentare, è ovvio. Ad esempio, non c’è formaggio. E il primo supermercato è a 120 chilometri».

Com’era la sua vita in Italia?

«Lavoravo come infermiera. Sono originaria di Padova centro, ma ho sempre amato la natura. Quindi prima mi sono trasferita in provincia: a Noventa, Vigonovo, Selvazzano. Ho lavorato negli ospedali di Padova, di Dolo e in una comunica terapeutica psichiatrica a Venezia. Ho cambiato tanti reparti: trapianti di fegato, Rianimazione, Pronto soccorso, sala operatoria. Ma alla fine ho detto “basta”, ho lasciato tutto e mi sono trasferita in Marocco. Ho aperto un campo tendato di lusso, poi mi sono separata dal mio socio e ora lavoro con i turisti, organizzo escursioni».

Com’è casa sua?

«Una casa semplice, in classico stile marocchino, con due stanze, due saloni, due bagni e il giardino. E con il minimo indispensabile. Ma è comunque più ricca della media. Per capire cos’è veramente necessario, ho impiegato quasi sei mesi. Ho un armadio per i vestiti, un mobile per le stoviglie e un letto. Ma è tutto superfluo, secondo i marocchini. Loro hanno un piccolo mobile in tutta la casa e poi tengono ogni cosa nelle valigie. E la notte dormono su materassini poggiati su alcune coperte sul pavimento».

Qual è il suo rapporto con gli altri abitanti del villaggio?

«Sono diventata il loro riferimento medico e casa mia ormai è una sorta di ambulatorio-farmacia. Quando c’è bisogno di una medicazione o di un’iniezione, le persone vengono da me. E una volta all’anno torno in Italia per fare il pieno di medicinali da portare qui in Marocco. Gli abitanti del villaggio prediligono i farmaci europei a quelli locali, nonostante abbiano gli stessi principi attivi. Così spesso mi ritrovo a dare agli altri i medicinali italiani, tenendo per me quelli marocchini. Il paradosso è che qui sono ancora molto legati alla medicina tradizionale: curano il mal di stomaco con il cumino, il raffreddore con aglio e limone. E poi sono fatalisti».

In che lingua parlate?

«Questo è un grande problema, perché le donne, ad esempio, non parlano francese e io di arabo conosco lo stretto necessario. Anche per questo, per me è più facile instaurare rapporti di amicizia con gli uomini, abituati a lavorare nel mondo del turismo. La cultura berbera, poi, è chiusa alla società: ad esempio, le donne non si farebbero mai visitare da un medico uomo. Al villaggio, il 98% degli abitanti è di derivazione nomade. Parliamo di persone che hanno passato una vita da migranti del Sahara e che poi hanno deciso di stabilizzarsi. Non è da tutti: ci sono nomadi che non potrebbero mai accettare di vivere in una casa».

È stato difficile abituarsi alle temperature del deserto?

«Quando vivevo nel campo tendato, ho affrontato situazioni atmosferiche realmente al limite. Qui comanda il sole e la temperatura può arrivare a 50 gradi. Per questo nelle notti d’estate si dorme sulla terrazza; a meno che non ci sia vento: in quei casi è impossibile uscire di casa, le raffiche di sabbia possono essere fortissime. E poi c’è una siccità pazzesca: fino a pochi giorni fa, non cadeva una goccia d’acqua da due anni. Mentre in questi giorni stiamo vivendo una situazione drammatica, a causa di un’inondazione».

Tornerà in Italia?

«In Italia non ho più niente, non ho più una casa. L’unico vero problema, qui, è la sanità. Non mi sono trasferita a Merzouga, dove c’è il campo tendato, perché a me piace il nulla. Però vivo in una zona veramente tagliata fuori dal mondo e servita male. Io ho un’assicurazione sanitaria, ma per avere qualche sicurezza in più dovrei trasferirmi in una grande città, come Marrakech o Fes. Ma non andrei a vivere lì nemmeno se mi regalassero una casa. Ragiono alla giornata e sono felice»

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