«La facoltà di Ingegneria politecnico del Veneto»

Rizzuto, rettore a Padova: serve una sede e questa potrebbe essere la Fiera

PADOVA. «Siamo già il grande Politecnico del Veneto. La nostra Ingegneria deve dialogare con l’innovation hub in Fiera e avere una sede unica nell’area a nord del Piovego». Il processo di “razionalizzazione” dell’ateneo immaginato dal rettore Rosario Rizzuto ha la forma di una costellazione: diffusa in città ma con una serie di punti più luminosi rispetto agli altri, cioè i poli multifunzionali. Dal polo umanistico, che troverà nuovi spazi nell’ex geriatrico in via Beato Pellegrino, al polo delle Scienze sociali che si concretizzerà nell’ex caserma Piave, al campus di Medicina che accompagnerà la realizzazione del nuovo ospedale a Padova Est. Restava scoperta, appunto, l’area di Ingegneria, oggi concentrata lungo il Piovego, ma che potrebbe avere uno spazio di espansione tra i padiglioni della Fiera di via Tommaseo, contaminandosi con la futura soft city.

«Questo ateneo ha una storia ed un futuro – chiarisce Rizzuto aprendo il forum in redazione al mattino – Della nostra tradizione di libertà siamo orgogliosi, ma ora che stiamo per entrare nel nostro nono secolo di vita dobbiamo accettare le sfide di una università moderna per essere leader anche a livello internazionale».

Rettore, Ingegneria ha molti corsi in rapida crescita. Tanto da dover pensare a un numero programmato. Cosa intende fare per garantire una didattica di qualità?

«A malincuore è stato necessario prevedere il test d’ingresso per Ingegneria dell’Informazione. La richiesta è alta perché i nostri laureati trovano lavoro al 100%».

Considera le strutture di Ingegneria adeguate e sufficienti, soprattutto in una prospettiva futura?

«È chiaro che nella razionalizzazione che abbiamo avviato il tassello mancante è quello dell’Ingegneria e delle “scienze dure”. Qui però è necessario un passaggio in più: è l’opportunità di collaborare con il territorio e immaginare che Ingegneria significa anche innovazione e nascita di nuove imprese».

Lei sta lavorando per trovare nuovi spazi?

«Io sto lavorando non solo per la soluzione di un problema, ma per un progetto alto. Per costruire una filiera dell’innovazione che parta dalla formazione ma che comprenda anche i laboratori ad alto contenuto tecnologico e quindi le ricadute e gli spin off. Il tutto in una sede fisica in cui ci sia questa contaminazione».

C’è uno spazio adatto a questo progetto?

«Attenzione: non si tratta solo di aule, di cui pure abbiamo bisogno. Ma di un progetto che coinvolga l’intera città».

Quello del Politecnico del Veneto, appunto.

«Noi siamo già il Politecnico del Veneto. Perché qui la nostra Ingegneria vive fianco a fianco con le scienze di base».

Ingegneria ha una sede storica in città. Ed è nell’area del Piovego.

«A me piace esplorare la possibilità di unitarietà di luogo. Certo questo Politecnico va collocato nella sua area storica ma con il luogo dell’innovazione fisicamente vicino. C’è bisogno, letteralmente, che ci si incontri al bar. Deve nascere un’area in cui si fa fatica a distinguere quello che è formazione dall’applicazione».

Ci sarebbe l’area accanto al fiore di Botta, il cosiddetto “Botta 2”. Ma l’ateneo ha rinunciato a quel progetto.

«Il luogo deve essere in questo quadrante. E credo possa nascere una grande operazione se nel progetto di rilancio della Fiera si riesca ad inserire anche l’hub dell’innovazione, un posto in cui le nostre lauree tecnologiche si collocano, crescono e diventano anche strumento per il tessuto produttivo del territorio».

Dunque lei guarda ai padiglioni della Fiera?

«Se non fosse possibile cercheremo altri spazi lì vicino. Ma io credo nel dialogo con le istituzioni perché l’università è un asset della città».

Il rilancio della Fiera è però, in questo momento, uno dei punti interrogativi di cui discutono le istituzioni cittadine. Come può intervenire l’ateneo?

«Il piano di rilancio della Fiera è nelle mani di chi ne ha la responsabilità. E capisco che si voglia dare un futuro all’attività fieristica. Ma noi abbiamo una necessità che è anche un’opportunità: da una parte dobbiamo rispondere al successo delle nostre lauree tecnologiche, dall’altra si può coniugare la necessità formativa con la possibilità di creare una realtà nuova. Il posto naturale in cui farlo succedere è quel quadrante della città».

Non c’è il rischio di perdere l’attività fieristica?

«Io credo che invece possa essere una commistione che fa bene, sia perché i nostri studenti possono tenere viva quell’area tutti i giorni dell’anno e anche perché alla fine magari aiutano l’identificazione di un’altra funzione per la Fiera».

Il dibattito sul rilancio della Fiera però rischia di essere più lungo di quello sul nuovo ospedale.

«Ecco no. Qui dobbiamo valutarne la percorribilità in tempi rapidi. E l’eventuale progettualità deve partire in tempi brevi».

Si può obiettare che una manifestazione come Auto e Moto d’epoca produce un indotto per la città, gli studenti no.

«In realtà hanno un indotto anche gli studenti. Però la scommessa è non mettere in contrapposizione il rilancio della Fiera con l’innovation hub. Non deve essere percepito come un rischio».

Il rischio però è anche quello di concentrare troppe funzioni nel quadrante Est.

«In realtà noi in questo momento il quadrante lo stiamo svuotando, perché porteremo via l’Economia e le lauree umanistiche. Lo sviluppo urbanistico comunque è governato dal Comune e noi seguiremo la strada della leale collaborazione tra istituzioni».

In termini di risorse economiche l’ateneo può sostenere anche questa spesa, considerate tutte quelle del processo di razionalizzazione da lei iniziato?

«In termini di risorse abbiamo cassa e abbiamo una programmazione che ci permette di non avere un bilancio in sofferenza. Al punto di aver chiuso alcuni mutui e che contiamo di realizzare il campus all’ex caserma Piave senza aprire nuovi mutui, cioè completamente in auto finanziamento e senza accendere a fondi ministeriali per l’edilizia universitaria. Anche perché questi ultimi non ci sono. Ma su questo io ho un sogno»

Quale?

«Provare a coinvolgere nel finanziamento di alcune delle nostre opere dei mecenati. Sono esempi che troviamo in America e anche in altri Paesi. Ma ci sono persone che vogliono legare il proprio nome a un’istituzione prestigiosa».

Anche nel Nord Italia ci sono tantissimi padiglioni ospedalieri che portano il nome di un’azienda o di un benefattore.

«Se io avessi una grande disponibilità economica e dovessi scegliere se dare alcuni finanziamenti a pioggia o realizzare il palazzo centrale di un grande campus universitario, ci penserei».

Il suo è proprio uno sforzo di razionalizzazione della presenza dell’ateneo in città.

«Dire che l’università è un sistema ordinato è un ossimoro, però arrivare a un sistema che riesce ad avere la massima efficienza possibile perché ha le strutture e le utilizza al meglio mi darebbe grande soddisfazione. Sono un piccolo ingegnere, in questo».

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia