«Il giorno in cui ci rubarono la vita»

16 FEBBRAIO 1979. Adriano Sabbadin ricorda il padre Lino, ucciso dai Pac
Cesare Battisti
Cesare Battisti
A
driano Sabbadin, il 16 febbraio 1979 lei aveva 17 anni.
 
«Ero un ragazzino. Da qualche mese lavoravo in macelleria da papà, mi stava insegnando a usare gli strumenti. Ma non sapevo di sicuro il mestiere».


 
Lei non c’era, al momento degli spari.
 
«Ero appena uscito dalla bottega, papà mi aveva mandato di sopra, a casa, per fare una telefonata. Giù erano rimasti solo lui e la mamma. Credo di aver sentito gli spari ma ricordo soprattutto le urla, i parenti che si mettevano di traverso sulle scale e mi gridavano non andare giù, non andare giù. Mi rivedo che li sposto di peso, e faccio le scale di corsa».


 
Lui era tra le braccia di sua madre.
 
«Lei non parla quasi mai di quel momento. Solo nei primi tempi, e ho saputo che quanto sono entrati presentandosi come ispettori dell’igiene lui ha cambiato colore. E so che non ha tentato in nessun modo di evitare i colpi. E’ caduto. La mamma lo ha preso tra le braccia, gli teneva la testa, il suo grembiule assorbiva tutto il sangue. Lei gridava come una pazza, chiedeva aiuto, e intanto lo accarezzava come un bambino. Di quegli spari porta i segni, è rimasta assordata. Io, quando immagino, vedo lui che va incontro alla sua fine senza abbassare gli occhi. L’aspettava da settimane, viveva con la morte alle calcagna: credo che si sia lasciato uccidere così, senza reagire, per salvare noi da quella che era diventata una vita d’inferno. Eppure aveva una pistola in tasca».


 
Perché, prima dell’agguato, c’era stata un’altra tragedia.
 
«Il 16 novembre mio padre aveva subito una rapina, un fatto violentissimo. Erano entrati, avevano sparato in aria. Avevano preso per i capelli una cliente giovanissima minacciandola di morte, mia sorella, che era una ragazzina, aveva consegnato il cassetto dei soldi ma loro urlavano che non bastava e continuavano a sparare in aria. Mia sorella è svenuta: mio padre ha sparato. La sua famiglia era sotto tiro. C’è stato un morto».


 
Come reagì suo padre al fatto di aver ucciso?
 
«Quel giorno cominciò a morire anche lui. Anche prima delle minacce. Piangeva, diceva che non si sarebbe mai perdonato ma che aveva provato terrore per mia sorella, per le clienti. Il maresciallo dei carabinieri lo consolava».


 
Arrivarono le minacce.
 
«Il 24 dicembre il tritolo sulla porta. Le telefonate anonime. La sera del 31 dicembre eravamo tutti qui per aspettare l’anno nuovo. Alle 22 arriva una telefonata: tra un’ora siete tutti morti. Mandò a casa tutti i giovani nostri amici, restarono solo i parenti».


 
E infine, fu febbraio.
 
«Pioveva sempre, in quei giorni. Anche il 16 era brutto tempo. Quel pavimento coperto di sangue è stampato a fuoco nella mia memoria. E poi i carabinieri, gli interrogatori. Tre giorni dopo, il funerale. La mattina del quarto giorno ho preso le chiavi del negozio e sono sceso. Ho aperto, c’era una vita da tirare avanti. Non avevo licenza, non avevo fatto i corsi, non avevo neanche la patente. Ma la macelleria era tutto quello che ci restava. Qualcuno dei parenti aveva pulito il pavimento, fuori c’era il sole».


 
Anni di lavoro, in silenzio.
 
«Noi non abbiamo nemmeno mai considerato che qualcosa, magari solo il rispetto della memoria, ci spettasse. Dicono che Battisti in carcere avrebbe bisogno di uno psicologo. E noi, che psicologi abbiamo avuto, noi? Mia sorella andava alle elementari: per un anno intero ha vomitato tutti i santi giorni. La sua psicologa era la bidella, che le faceva un the caldo e le parlava per calmarla. Io, che avevo 17 anni e la minaccia che se non passavo i corsi e l’esame mi chiudevano l’attività, non sono mai stato giovane. Mi hanno rubato tutti i miei anni, tra lavoro, avvocati, processi. Due anni fa, alla sagra, ho conosciuto una ragazza del paese: abbiamo un bimbo, ci sposeremo. Ma chi mi ridarà i miei anni perduti?».


 
Suo padre è ancora molto vivo nel vostro cuore.
 
«Sulla sua tomba ci sono sempre fiori freschi, le mie sorelle fanno a gara per portargli i più belli. Siamo una famiglia cresciuta intorno a una morte».


 
E al senso di un’ingiustizia.
 
«Non mi sono mai aspettato niente. Battisti se lo vogliono tenere? Che se lo tengano. Perché se viene in Italia, chi lo dice che fa il carcere? Io solo questo vorrei, che facesse la galera. Io ho dovuto leggere nei verbali che mio padre veniva indicato come il porco Sabbadin: è questo che non perdono. Mio padre era un uomo buono e onesto. A mio figlio devo una storia e delle spiegazioni: ma la giustizia cosa fai, la cerchi forse in un mondo come questo?»


 
Almeno, non siete più soli.
 
«L’Associazione vittime del terrorismo ha fatto qualcosa di straordinario. Ha avvicinato tutte queste persone che vengono da storie di lutti e di morte. Siamo vicini, ci sentiamo, parliamo».


 
Parlare non è forse risvegliare ogni volta il lutto?
 
«No. E’ scoprire che c’è qualcuno come te: gli stessi sentimenti, gli stessi incubi, la stessa vita segnata. Io con l’associazione ho trovato i miei fratelli. Abbiamo lo stesso sangue, fatto di morte e di ingiustizia».

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