Dieci gli uomini pestati a Padova dalla banda che odia i gay. Trovata anche una svastica

Aggressioni e rapine in zona industriale, gli arrestati restano in silenzio di fronte al giudice. Sequestrate le maschere usate nei raid e riconosciute dalle vittime
Carlo Bellotto
Alcune maschere usate dalla banda per gli assalti
Alcune maschere usate dalla banda per gli assalti

Bocche cucite giovedì mattina, 12 dicembre, davanti al giudice Claudio Marassi. I due ragazzi marocchini arrestati e in carcere con le pesanti accuse di aggressioni e rapina ad una decina di gay si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Quindi sono rimasti in cella fino a nuova decisione.

Si tratta di Tahar El Meliani, 23 anni, residente a Fossò (Venezia) e di Mohammed Fathali, 23 anni, di Vigonovo (Venezia). Gli indagati nati in Marocco sono difesi dall’avvocato Davide Taschin. Denunciato a piede libero N. A. 18 anni, romeno. Per lui il pm Roberto D’Angelo aveva chiesto il carcere come per gli altri, ma il giudice ha ritenuto che la sua posizione fosse più leggera.

Le vittime

Dieci le vittime, uomini di mezza età che si trovavano la sera nella zona industriale di Padova, in un boschetto lato strada di via Polonia, per consumare rapporti omosessuali. Emerge dalle indagini che la banda, composta da tre maggiorenni e 6 minorenni (non sempre presenti) intendeva “ripulire” la città dai gay.

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Trovate anche svastiche naziste. «Froci di m. , qui non dovete stare, questa è zona di spaccio» dicono ad una vittima.

Le aggressioni

I colpi sono tutti di violenza inaudita: usavano una mazza da baseball e colpivano le vittime senza pietà, causando prognosi anche superiori ai 40 giorni. Due mesi di violenza: gli assalti iniziano il 5 giugno e finiscono la notte del 31 luglio.

Le vittime, oltre al dolore fisico, dovevano subire anche l’umiliazione di essere messe alla berlina per il loro orientamento sessuale. C’è chi doveva tornare a casa con l’auto in cui erano stati incisi con il cacciavite simboli fallici o scritte come “gay” o “frocio”. Come riporta il giudice, il sentimento di vergogna e emarginazione che gli indagati hanno instillato nelle parti offese è una forma di violenza più persistente di quella fisica.

Le modalità

Sempre uguale il copione. Qualcuno della banda, a turno, avvicinava la vittima di turno proponendogli un rapporto sessuale. Quando si avviavano nel boschetto per consumarlo al riparo da occhi indiscreti, sbucavano i complici mascherati e iniziava la punizione. Mazzate, qualcuno sveniva, altri riportavano fratture, alcuni chiedevano pietà. Ma loro non si impietosivano e continuavano. E proseguivano marchiando l’auto.

I referti medici fanno rabbrividire: frattura radio distale, lesioni multiple, escoriazioni, fratture nasali. Minacce del tipo: «Se chiami la polizia sappiamo dove abiti». «Non vogliamo gay nel nostro territorio». Dopo le violenze e i danneggiamenti scattava il furto: del giaccone, delle scarpe, del denaro nei portafogli, del bancomat con l’obbligo a dire il codice pin.

Le indagini

L’indagine inizia con evidente difficoltà. Le vittime avevano paura di denunciare. Si inventavano una sosta in zona industriale per fumare una sigaretta, per rispondere ad un messaggino. Ma poi quando il quadro ha iniziato a delinearsi, tutte le vittime sono state riascoltate dai carabinieri del Nucleo Investigativo dei carabinieri, coordinati dal maggiore Enrico Zampolli.

Ai 9 sono contestati reati che vanno dalla rapina all’estorsione, dal porto d’armi alle lesioni gravi, dal danneggiamento aggravato, al furto. Una sfilza di reati contestati a vario titolo e che potrebbero portare a pene fino a vent’anni di carcere a testa. A tradirli è stato un cellulare rapinato che si sono portati a casa. Ha portato gli investigatori sul posto giusto. Scoprendo pian piano tutti gli altri.

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