«Confindustria, in Veneto c'è molta sete di poltrone e poca visione sul futuro»
Intervista a Mario Carraro, "senatore" dell'associazione degli industriali
EX PRESIDENTE REGIONALE Mario Carraro, guida dell’omonimo gruppo padovano
PADOVA
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Da una parte, o meglio al centro, Sergio Marchionne con le sue "uscite" all'americana, dall'altra, in periferia, ma nel centro della regione fra le più industrializzate d'Italia, il Veneto, i malesseri di un'associazione di industriali che si manifestano, un po' dappertutto, in scontri sulle nomine. Nella Confindustria di Emma Marcegaglia sembra non esserci più pace da alcuna parte. Che cosa succede? Come porvi rimedio? Mario Carraro è, per età e ruoli ricoperti nel passato, un "senatore" dell'associazione. «Siamo arrivati a un punto di svolta. E la crisi dell'economia sta rivelando anche una crisi d'identità della Confindustria che andrebbe ripensata nell'organizzazione e negli scopi. Siamo fermi allo Statuto Pirelli disegnato su un sistema industriale di 30 anni fa. Rimproveriamo alla politica di essere immobile, ma noi siamo rimasti ancor più indietro. In politica, almeno, non è più un tabù qualche modifica della Costituzione».
Cosa non funziona?
«Assistiamo a una crisi di identità. Ci sono categorie differenti, alle volte in contrasto, se non agli antipodi: industria e servizi, ferrovie e monopoli energetici, grandi e piccoli. Spesso si ha l'impressione di essere di fronte a una Torre di Babele. Ognuno con linguaggi e interessi spesso tra loro distanti».
E poi?
«Poi c'è un'organizzazione troppo pesante e costosa che forse non risponde più alla profonda evoluzione che vive il sistema produttivo».
Si spieghi meglio...
«Ci troviamo di fronte ad un mondo industriale cambiato. Molte aziende, tra le quali la mia, hanno più lavoratori all'estero che in Italia, malgrado il significativo apporto "nazionale" di Santerno. L'internazionalizzazione è divenuto un irrinunciabile must per il manifatturiero. Come si vede dal caso Marchionne, se gli investimenti si muovono a seconda delle convenienze, se gli operai, ma anche gli ingeneri da impiegare nelle imprese si possono trovare in mezzo mondo, anche l'organizzazione della rappresentanza degli interessi va ripensata».
Già ma come?
«Non ho la soluzione pronta, ma pongo alcuni punti».
Dica.
«Primo: c'è una carenza di analisi. Qui ci scontriamo per presidenze e incarichi, ma nessuno si occupa di dove stia andando il mondo e come il sistema industriale italiano possa affrontare questa svolta. Non si tratta di disegnare scenari intellettuali, ma di dare indicazioni e anche aiuti veri a chi, come molte aziende medio piccole, rischia di non uscire vivo dalla crisi. Lo dico pensando anche al Veneto, una delle zone d'Italia più toccate da questa svolta e che dovrebbe avere una rappresentanza in grado di alzare la palla del dibattito sul futuro di una regione che ha trainato l'Italia negli ultimi anni».
Secondo?
«Per quanto riguarda l'organizzazione, bisogna mettere il capo fuori dall'Italia. Serve una struttura più agile, come quella inglese o tedesca, meno costosa, che abbia una forte rappresentanza a livello sindacale e non abbia bisogno di tutelare gli industriali in tutto, quasi fare da balia».
Per l'Italia sarebbe davvero un bel cambiamento, a partire dal ruolo del
presidente di Confindustria...
«Che lo si voglia o no prima o poi sarà la realtà a imporci un ripensamento anche su questo. Non è possibile andare avanti con campagne elettorali per la presidenza che durano mesi, schieramenti e manovre come se si trattasse di determinare la politica del Paese, prendendo a prestito dalla politica i suoi aspetti più deteriori e autoreferenziali. Ci vuole meno drammaticità, più concretezza, incarichi "leggeri", magari annuali, con presidenti di rappresentanza e manager che si occupino dell'organizzazione».
Che cosa pensa del malessere che serpeggia nelle associazioni venete e degli scontri per le presidenze?
«Penso che ci siano troppe presidenze. Vedo troppa voglia di poltrone e troppi scontri per i posti, una cosa che non fa onore a Confindustria. Ci sono troppi industriali che migrano dalla rappresentanza confindustriale verso banche, fiere, istituzioni di ogni genere come se la competenza a rappresentare gli interessi produttivi fosse in realtà solo l'inizio di una carriera senza fine».
E per quanto riguarda il caso Rovigo?
«Lo dissi a suo tempo: Padova e Rovigo debbono andare insieme, non ha senso che marcino separate. Molte aziende padovane hanno i loro stabilimenti lì, abbiamo l'esperienza di una banca, come la Cassa di risparmio, che non ha certo mancato di rappresentare, anche in termini di uomini, quel territorio. È un'unione tanto più necessaria oggi che c'è bisogno di un rilancio e forse anche di un esempio, a livello Veneto, di come mettere insieme le forze e ridisegnare un'organizzazione confindustriale che ha fatto il suo tempo».
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