Palude Venezia, le ammissioni di Boraso: «Facevo pressioni per agevolare pratiche»

L’interrogatorio dell’ex assessore davanti ai magistrati della Procura: «Ecco i miei errori, ma sulla vicenda dei Pili io non sono mai intervenuto»

Roberta de Rossi
Il sindaco Luigi Brugnaro e l'allora assessore alla mobilità Renato Boraso
Il sindaco Luigi Brugnaro e l'allora assessore alla mobilità Renato Boraso

«Volevo continuare a svolgere la mia attività di consulente immobiliare, ma mi rendo conto che - per come si sono sviluppati i rapporti con le persone e gli imprenditori che mi corrispondevano denaro, è successo che questi si sentivano in dritto di chiedermi conto della mia azione assessoriale e di richiedermi interventi e informazioni presso dirigenti e funzionari comunali, che io acquisivo in ragione del mio ruolo all’interno dell’amministrazione comunale (....) Prendo atto però che il mio errore era quello di utilizzare la mia figura di assessore per influenzare i tecnici senza però indurli a prendere posizioni contraria alla legge, ma per seguir e pratiche che mi stavano a cuore. Ciò dico perché è evidente che si svolge il mio ruolo non può interferire su atti amministrativi».

Il (mezzo) mea culpa di Boraso

Si apre con questa lunga dichiarazione dell’ex assessore Renato Boraso il verbale del primo interrogatorio davanti ai pubblici ministeri Federica Baccaglini e Roberto Terzo. È il 15 settembre e Boraso lascia per la prima volta il carcere, dopo l’arresto 16 luglio, per il primo di 5 interrogatori in Procura, al termine dei quali (a novembre) otterrà gli arresti domiciliari.

L’ex assessore Renato Boraso
L’ex assessore Renato Boraso

Accanto a lui, il suo difensore, l’avvocato Umberto Pauro. I pm lo accusano di 13 casi di corruzione per oltre 750 mila euro di tangenti: soldi e favori ricevuti da imprenditori compiacenti, in cambio di interessamenti e pressioni sugli uffici comunali e le aziende pubbliche per la concessione di appalti o autorizzazioni edilizie.

Lui ammette di aver ricevuto danaro, di aver cercato informazioni e fatto pressioni, dice che è stato un «errore», ma lo lega alla sua attività, non ammette apertamente le corruzioni.

«Ammetto di aver preso danaro da imprenditori», mette a verbale, «per favorire contratti immobiliari venendo compensato come consulente immobiliare: il mio errore è che mi avevano promesso altre dazioni legate allo sviluppo delle iniziative immobiliari degli acquirenti, esaudendo le loro richieste di intercedere presso gli uffici immobiliari incaricati di approvare provvedimenti edilizie; in altri casi come consulente aziendale, per rispondere alla loro esigenza di entrare nel mercato immobiliare».

«Ho fatto valere il mio ruolo»

«Questa mia prassi è cominciata con Gislon (Francesco, proprietario della Mafra, ndr) nel 2019, con la stipula di un contratto quadro tra noi, per la vendita di un loro immobile a Venezia», «ma questi prese a chiedermi informazioni privilegiate che ho esaudito sfruttando il mio ruolo assessoriale e chiamando i tecnici per pretendere informazioni. Ammetto di avere dichiaratamente fatto valere il mio ruolo politico di alto amministratore».

Gislon è - per l’accusa - uno dei maggiori “clienti” di Boraso, con pagamenti per 163 mila euro in cambio di appalti.

Le scuse

«Non posso che ribadire i miei errori e sono pronto a risarcire e rimediare», dice l’ormai ex assessore ai pm, «non avrei dovuto farmi coinvolgere dalle richieste di informazioni che mi venivano dagli imprenditori. Ammetto le mie responsabilità rispetto ai fatti contestati, ma vorrei fornire chiarimenti a mia discolpa su alcune vicende».

Il software della polizia locale

Per due volte Renato Boraso bussa alla porta del comandante della Polizia locale Marco Agostini: «Una volta mandandogli Massimo Benetazzo per la vicenda dei 7 minuti di sosta in ambito aeroportuale; una seconda portandogli Stefano Comelato, per la gara sulle multe (....) Non ho patito alcuna conseguenza o richiamo da parte dei vertici del Comune (....) ritengo che Agostini abbia accettato di riceverci per il solo fatto che rispettava le mie funzioni assessorili (...)».

E quando alla burocrazia della gara, li rimanda al funzionario che ce l’ha in gestione.

Il «No» di un funzionario

L’obiettivo dell’imprenditore Comelato è partecipare alla gara per il nuovo software per la gestione delle multe. Quello di Boraso è di aiutarlo, ma sulla loro strada trovano un dipendente pubblico integerrimo.

Inchiesta Palude, le parti civili presentano il conto. Casinò e Avm chiederanno i danni
Il Casinò di Venezia: la partecipata pronta a chiedere i danni per l'inchiesta Palude Venezia

Il bando è fatto e pubblicato: «Nel giugno del 2023 chiesi insistentemente ed ottenni da Ceron (direttore generale, ndr) di dilazionare il termine di 15 giorni per consentire a Comelato di partecipare. Ho interferito anche su Ceselin, che mi ha opposto la sua indisponibilità: Marzio Ceselin è stato l’unico funzionario che si è opposto al mio agire e alle mie interferenze», conclude sul punto Boraso. Come inserire nel capitolato di appalto una caratteristica tecnica sull’interfaccia utente, che avrebbe premiato l’impresa amica: il funzionario lo riceve, ma non ne fa nulla.

«Il mio intento», conclude Boraso, «lo ammetto non era quello di creare parità tra tutti gli aspiranti, ma di porre la Open Software del Comelato in condizioni di partecipare con successo alla gara (....) con lui abbiamo parlato di collaborazione in cambio di 40 mila euro, ma per vendere 14 appartamenti. Offerta che ho rigettato perché erano a Salzano (....) gli ho suggerito di rivolgersi all’agenzia Anamù, spiegandogli che era della moglie del sindaco che sapevo aver operato nel comune di Salzano».

Irrompe il caso Pili: «Non so nulla»

Nel primo interrogatorio i pm Baccaglini e Terzo chiedono subito a Boraso del “caso Pili”, dei tentativi di vendere l’area al magnate Ching Chiat Kwong e di palazzo Papadopoli “sventudo”, per l’accusa. L’ex assessore - su questo - si dichiara completamente estraneo.

Inchiesta Palude Venezia, spuntano nuovi indagati ed accuse
L'ex assessore Renato Boraso

«È vero che ogni tanto chiedevo al sindaco a che punto stavano le pratiche che mi interessavano, chiedevo a Ceron o Brugnaro perché erano i primi a sapere a che punto era una pratica e quando sarebbe stata sbloccata», dice Boraso ai pm, aggiungendo «Brugnaro ha un carattere molto duro, perché sosteneva che era indispensabile per riordinare la situazione del Comune».

Ma dai Pili si chiama fuori: «Nessuno mi ha coinvolto nella visita del finanziere Ching quando fu ricevuto dal sindaco in Comune. C’erano il sindaco, Ceron, l’assessore Colle e mi si dice anche l’assessore Zuin. Brugnaro in seguito ci aveva detto che era arrivata una offerta irrevocabile per Palazzo Papadopoli, già inserito nel piano alienazioni dalla giunta Orsoni».

«In mia presenza era stato l’allora sindaco Cacciari a suggerire Brugnaro di fare un’offerta per i Pili: come consulente immobiliare devo dire che non avrei mai comperato quel terreno, perché ha una situazione ambientale che rende insostenibile qualsiasi piano economico: ad oggi la bonifica costerebbe almeno 4 milioni».

Palude Venezia, 7 mila atti e due settimane per decidere se patteggiare o no
L’ex assessore Renato Boraso

«Sono stato totalmente escluso da questi incontri con Ching e preciso che su parte dell’area dei Pili era previsto da tempo, almeno dal 1999, un impiego come terminal già all’epoca dell’approvazione del Put. Delle attività progettuale sui Pili ho appreso solo dalla polemica giornalistica scoppiata nel gennaio 2018. Brugnaro in giunta ci ha detto che gli era venuta questa proposta da Ching ma che non se ne era fatto nulla (....) non avrebbe mai ammesso di avere fatto un investimento sbagliato». Boraso si chiama fuori del tutto: «Non ho mai sentito parlare Ceron, Donadini e Brugnaro della destinazione urbanistica della parte dei Pili che non sarebbe stata espropriata e dell’idea di collocarvi uno studentato: mai stato coinvolto in discussioni sul futuro dei Pili».

Boraso dice di non aver avuto alcun ruolo nell’abbattimento del prezzo del palazzo da 14 a 10, 8 milioni di euro.

I rapporti con Claudio Vanin

La Procura invece gli contesta una tangente da 73 mila euro per agevolare la vendita di palazzo Papadopoli al magnate - per farlo conoscere in città e allettarlo all’investimento sui Pili - soldi ricevuti da una società intestata al figlio di Claudio Vanin, l’imprenditore che ha a lungo lavorato in Italia con Ching, che da parte sua si è dato un gran daffare per i Pili e poi, saltato l’affare, ha denunciato tutto.

Venezia, bufera corruzione: contestato il Consiglio comunale

Sul punto Boraso insiste: si era trattato di una consulenza immobiliare, non di una tangente. Nel primo interrogatorio dice di aver conosciuto Vanin (della Falc) nel 2017 tramite l’amico comune, l’architetto Fabio Pasqualetto: «Mi disse che aveva rapporti con investitori esteri interessati ad investimenti importanti a Venezia e Fuori città. (....) stipulammo un contratto per 60 mila euro più Iva, mi pagò acconto e poi saldo: gli portai uno scatolone di carte con la mia consulenza.

Su Palazzo Papadopoli mi chiese solo quando la Polizia locale l’avrebbe lasciato libero (...) Sulla vendita non ho avuto alcun ruolo salvo quello di votare l’atto in giunta, nell’approvazione della delibera. Tutte le valutazioni tecniche sono state assunte dai tecnini dell’assessorato diretto da Luciana Colle».

Ed è solo il primo interrogatorio.

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia