Vite lontano dai figli, le badanti Vesna e Lilia: due storie di resilienza
Due donne, Vesna dalla Bosnia e Lilia dalla Moldavia, hanno lasciato tutto per garantire un futuro migliore ai loro figli. Tra lutti, distanze e lavori senza tutele, oggi raccontano la loro lotta per ricostruirsi una vita in Italia
Quando Vesna è arrivata a Venezia, era passato solo un mese dal massacro di Srebrenica, in cui persero la vita ottomila ragazzi e uomini musulmani bosniaci. Tra loro, anche Dragan, suo marito e padre della sua bambina che, all’epoca, aveva quattro anni.
Con la bimba in braccio e un borsone con quel poco che avevano, Vesna sale su un pullman e arriva in Veneto, senza sapere una parola di italiano. Oggi, ha 60 anni, vive in un piccolo appartamento con le poche foto di famiglia sopravvissute ai bombardamenti sulle mensole, la residenza a Venezia e fa la badante in centro storico.
«Non è stato facile essere da sola con una bambina piccola. La guerra ci ha portato via tutto: la casa, il lavoro, ma soprattutto un marito e un padre», racconta. I primi tempi sono stati tortuosi ma, spiega, associazioni, servizi sociali e la comunità bosniaca del Veneto l'hanno aiutata a inserirsi.
«Prima che scoppiasse il conflitto, lavoravo in una casa di riposo. Qui ho fatto per un po’ la donna delle pulizie, mentre imparavo la lingua, poi ho fatto la badante per diverse famiglie». Per un lungo periodo in nero, con uno stipendio basso e zero tutele, con la costante paura di non riuscire a garantire un futuro a sua figlia, Vesna ha lavorato per anni a servizio degli anziani nelle condizioni più disparate, per poi riuscire a trovare una sua stabilità e delle condizioni migliori.
«Accudire le persone più fragili mi fa sentire utile, quello che faccio mi piace, anche se non è sempre facile: sei a contatto con la sofferenza, la difficoltà dei parenti nel gestire anziani che non li riconoscono più e che non sono più autonomi. Cerco di fare del mio meglio». La cosa più difficile? «Il dialetto veneziano, all’inizio parlare con i nonni era proprio difficile», sorride raccontando che con gli anni ha imparato a capire anche quello, anche se «parlarlo è tutt’altra storia». La Bosnia le manca sempre, ma ormai è Venezia casa sua.
«Quando distruggono la tua città, quando bombardano la tua casa e ti portano via tuo marito, ti senti un’estranea e puoi solo andare via. Sono passati anni prima che tornassi in Bosnia, mi faceva troppo male. Adesso ogni estate ritorno per andare al cimitero da Dragan», continua, con gli occhi velati. Sul cellulare una foto della figlia, che ha studiato infermieristica all’Università di Padova, ha un lavoro e una sua famiglia. «L’ho fatto per lei, a Srebrenica non avrebbe potuto avere niente di tutto ciò».
Anche Lilia, badante a Pieve di Soligo, ha messo da parte tutto ed è partita, per il bene di suo figlio, cresciuto dai nonni e dal papà. Quando ha lasciato Larga, il comune più a nord di tutta la Moldavia, il suo bambino la salutava in lacrime dalla finestra.
«Andrei aveva sei anni, non poteva capire perché me ne stessi andando, tanto meno che lo facevo per lui». Nel suo Paese, racconta, il lavoro era poco e gli stipendi bassi, troppo bassi, per permetterle di immaginare un futuro per suo figlio. «I ragazzi che non studiano prendono brutte strade ed è ancora più facile in un luogo periferico, dove non c’è niente».
Lilia è partita per l’Italia contando su una cugina che da tempo si era stabilizzata in provincia di Treviso, che la ospita e l’aiuta a trovare un lavoro. «Per diversi anni sono stata da una signora con una grave forma di Alzheimer che aveva bisogno di assistenza continua, facevo anche dodici ore al giorno, con la domenica come unico giorno libero, per cinquecento euro al mese». Niente regolarizzazione, contratto e tantomeno diritti.
«Era una vita dura, sì, ma io pensavo a mio figlio. Quei soldi li mandavo a casa ed era una motivazione sufficiente per andare avanti». Lilia oggi ha cinquant’anni, i capelli chiarissimi e le sue frasi sono un saliscendi dalla musicalità orientale. In Moldavia, è tornata la prima volta solo quattro anni dopo la sua partenza.
«Prima non potevo, non avevo i soldi. Andrei era venuto due estati qua, per qualche settimana. Non è stato facile, era solo un bambino e mi rimproverava che l’avevo lasciato solo. Ti si spezza il cuore quando tuo figlio piange al telefono e tu non puoi abbracciarlo, quando ti perdi tutti i compleanni, la scuola e il bacio della buonanotte».
Oggi, Andrei ha 17 anni e frequenta il liceo scientifico. «Ora ho un contratto vero, con un giorno di riposo e le ferie. E uno stipendio che mi permette di vivere». Il pensiero, però, va sempre alla famiglia lasciata dall’altra parte d’Europa, ai genitori e al marito. «Vorrei tornare a casa, prima o poi. Magari quando mio figlio sarà più grande, ora deve pensare all’università» conclude.
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