Oleg Mandić, l’ultimo a uscire da Auschwitz: «Così ho imparato ad adattarmi al male»
Oggi ultranovantenne, è uno dei maggiori testimoni dei lager nazisti: «Sono sopravvissuto aggrappandomi al pensiero di mia mamma»

Oleg Mandić a 11 anni è stato l’ultimo a uscire dal campo di concentramento di Auschwitz e ha ricevuto a Trieste il Premio Cinzia Vitale 2025. Nato ad Abbazia ai tempi in cui la cittadina era italiana, a quasi 92 anni è uno dei più significativi testimoni viventi dei campi di sterminio.
Di quel 2 marzo 1945, quando fu l’ultimo a uscire dal lager, cosa ricorda?
«Il momento in cui, superata la rampa d’accesso, mi girai e vidi chiudere il cancello. Ricordo che guardai la scritta “Arbeit macht frei” e dissi a me stesso che finalmente era finita, che non c’era più alcun prigioniero e nessuno avrebbe più sofferto là dentro. È l’immagine che si impresse indelebilmente nella mia mente fanciullesca. Solo anni dopo mi resi conto che quel giorno ero anche entrato nella storia».
Si è chiesto come ha fatto a sopravvivere?
«Essere entrato nel lager con mia mamma mi aiutò. La sua presenza, nei primi due mesi, fu decisiva e anche quando ci separarono (ma anche la madre sopravvisse al lager, ndr), nei mesi successivi, a darmi la forza era il semplice pensiero che lei ci fosse, anche se non la potevo vedere. Ma soprattutto, sono stato molto fortunato. Se sono sopravvissuto lo devo per l’80% alla fortuna, al 15% all’amore materno, e per il 5% alla forza interiore che può avere un bambino di 11 anni che vuole disperatamente adattarsi al male nella speranza di ricavarne un briciolo di bene».
Venne trasferito per mesi nel reparto del dottor Mengele: come fu quel periodo?
«Dopo due mesi con mia mamma scoprirono che avevo appena compiuto undici anni. Superati i dieci anni si veniva messi assieme agli altri prigionieri maschi adulti. Mi sottoposero quindi a una visita medica propedeutica al trasferimento, una procedura che rientrava nella paradossale burocrazia di un lager dove ogni giorno si uccidevano sistematicamente migliaia di persone. Quel giorno ero talmente agitato che mi venne la febbre. Fu la mia salvezza: decisero di trasferirmi per pochi giorni nell’unico reparto dove erano ricoverati altri bambini, ovvero quello dei gemelli che Mengele sottoponeva ai suoi esperimenti. Ci rimasi cinque mesi. Non essendo un gemello, Mengele non mi considerò mai. Fui fortunatissimo. Lì il trattamento era comunque migliore rispetto a quello che avrei avuto nelle baracche dei prigionieri».
Perché ha sentito il bisogno di tornare ad Auschwitz?
«Ci sono tornato per iniziative commemorative e divulgative, ma, almeno tre volte, è stata una necessità che definirei terapeutica. Invece di andare dallo psicanalista, in quelle occasioni ho preso la macchina e ho guidato per più di dieci ore fino a raggiungere Auschwitz, arrivando nel tardo pomeriggio, all’orario di chiusura, quando i turisti andavano via. Mi bastava mostrare ai custodi il mio “lasciapassare”, ovvero il numero che ho ancora tatuato sul braccio: si mettevano sull’attenti e mi lasciavano entrare e restare quanto volevo. Mi sedevo sulla rampa, accanto alle rotaie, in compagnia dei miei ricordi. Guardavo l’unico albero rimasto in piedi immaginando che le foglie mosse dal vento fossero le anime dei prigionieri che non avevano avuto la mia stessa fortuna. E in qualche modo il dolore spariva e ritrovavo la serenità».
Da anni racconta la sua storia ai più giovani, invitandoli a combattere odio, indifferenza, intolleranza: ha fiducia nel futuro anche pensando al difficile momento storico che stiamo vivendo?
«No. Sembra che l’imbecillità umana impedisca di imparare dalla storia. Gli errori, a cominciare dalla guerra, vengono ripetuti ancora e ancora. Io ho vissuto il male assoluto e forse sono riuscito a tirarci fuori almeno qualcosa di buono attraverso la mia testimonianza. L’uomo continuerà a sbagliare. Spero solo che riesca a sbagliare un po’ meno».
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