Zaia: Nobel per la pace a Lampedusa

Il governatore del Veneto ad “Avvenire”, quitidiano dei vescovi: «Farò tutto il possibile perché quest’isola sia premiata»

VENEZIA - Luca Zaia vuole dare il Nobel per la pace a Lampedusa, l’isola degli sbarchi dei clandestini e profughi. «Quest’isola è da premiare», ha dichiarato oggi al quotidiano dei vescovi italiani “Avvenire”, che da un paio di giorni ha lanciato una campagna per il conferimento del più prestigioso riconoscimento internazionale, dopo la recente visita di papa Francesco.

Il presidente della Regione Veneto, intervistato da Avvenire, prende posizione «senza se e senza ma per la candidatura dell’isola». In questo senso fa seguito a Renato Schifani e Anna Finocchiaro, ma nel caso del leghista Zaia fa più notizia perchéil suo partito ha ingaggiato da anni una battaglia contro gli sbarchi che proprio a Lampedusa hanno il loro punto d’approdo principale in Italia.

«Nel caso di Lampedusa - è il senso della posizione di Zaia - verrebbe premiata una intera popolazione che con pazienza, umanità, solidarietà e condivisione affronta ogni giorno quella vergogna mondiale che è il flusso dei nuovi schiavi. E lo fronteggia in perfetta solitudine. Per cui sì, io sono senza "se" e senza "ma" per la candidatura al Premio Nobel per la pace di Lampedusa e dei suoi meravigliosi abitanti».

Non solo, il governatore aggiunge che farà di tutto per far sostenere questa candidatura in Parlamento.

Alla domanda se l’Italia stia facendo abbastanza per gli immigrati, Zaia risponde: «Posso parlare del mio Veneto, dove l’integrazione è realtà viva, operante, forse uno dei migliori modelli di integrazione a livello europeo. Il 10,2 per cento della nostra popolazione veneta (quasi 510 mila persone, di cui 255 mila occupati) è immigrato. Di questi, ben 39 mila hanno avviato attività imprenditoriale. L’effetto complessivo sul Pil regionale derivante dall’immigrazione è del 14,2 per cento. Sono cittadini a tutti gli effetti, i loro bambini frequentano le nostre scuole, le nostre case, giocano nelle stesse squadre sportive insieme ai nostri figli. Per questo, al di là dello sterile dibattito sullo ius soli, mi sono permesso di affermare pubblicamente e con forza quella che secondo me è l’unica, solida verità: i bambini che frequentano le nostre scuole, che sono scolarizzati, che parlano l’italiano (e spesso anche il nostro dialetto meglio di noi), sono da considerare subito cittadini italiani. Porte aperte a chi vuole venire da noi, lavorare, fare famiglia. Porte chiuse, però, e per sempre, a chi viene con altre intenzioni, a rovinare e inquinare una società che da secoli ha saputo fare dell’accoglienza e della solidarietà un valore quasi genetico».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia