VENEZIA. Luca Zaia e Flavio Tosi si avviano alla resa dei conti. In silenzio, perché il governatore oppone un infastidito “no comment” alle domande sulla querelle leghista mentre il sindaco-segretario, in missione istituzionale negli Stati Uniti, fa sapere che parlerà solo al ritorno nella madrepatria veronese. Con decisione, perché il fatidico vertice di Vicenza con Matteo Salvini anziché scioglierli, ha acuito i motivi di contrasto, evidenziando quale sia davvero la posta di una partita che si disputa su più tavoli. Tosi si avvia ad un congresso veneto che difficilmente lo rieleggerà segretario ed è cosciente che l’eventuale caduta lo relegherebbe ad un ruolo municipale in un partito ostile. Perciò deve capitalizzare la maggioranza di cui attualmente gode in direzione regionale, la stessa che ha approvato il documento esibito lunedì a Salvini, riassumibile in tre punti: autonomia decisionale dei “lighisti” in materia di liste e candidati in Veneto, no all’incandidabilità dei consiglieri dopo due mandati, ipotizzata in Via Bellerio; rifiuto dei simboli di Ncd e FI nella coalizione a trazione Carroccio. Se così fosse, il Flavio scaligero ipotecherebbe la parte del leone nella prossima legislatura regionale, piazzando i fedelissimi sia nella lista del partito di cui è segretario che nelle civiche di sostegno, prevedibilmente imbottite di simpatizzanti in fuga dal centrodestra e di esponenti della sua Fondazione «Ricostruiamo il Paese». Modello Verona, già. Con la chance, non trascurabile, di condizionare la stessa linea salviniana giocando di sponda con Raffaele Fitto e Corrado Passera. Sulla sua strada, il rivale trevigiano di sempre, che serra fila animato da due certezze: grazie alla popolarità di cui gode un’abbinata “secca” delle liste Lega-Zaia sbaraglierebbe facilmente la concorrenza (nel summit vicentino ha citato sondaggi inequivocabili); la presenza di una quinta colonna tosiana nella prossima giunta lo condannerebbe al ruolo di governatore azzoppato. «Ho già sperimentato questa situazione, non sono una locomotiva che traina i vagoni senza guardare chi c’è dentro. Se i candidati non saranno di mia fiducia, coerenti con un progetto di riforme, cercatevi un altro presidente», è sbottato a muso duro a Vicenza. Posizioni speculari, sembrerebbe, capaci di logorare i contendenti di qui al 24 maggio. Ma a spezzare l’equilibrio c’è il patto di ferro tra Zaia e Salvini. Quest’ultimo, all’uscita dal vertice, ha usato toni concilianti, invitando alla concordia e aprendo - in apparenza - sulla questione delle civiche e sul blocco dei mandati (cruciale per molti tosiani che rischierebbero il pensionamento politico) ma il diavolo di nasconde nei dettagli: «Se non si mettono d’accordo, interverrò io, chi volesse danneggiare Zaia si ritroverà fuori dalla Lega», ha scandito con nonchalance. Eccolo, l’asso nella manica zaiana. Sul fronte tosiano si lavora già alla composizione di liste satelliti, ultima in ordine di rumors quella del vicesegretario Maurizio Conte; e le trattative con amministratori e notabili delusi dalla deriva forzista o dall’inconsistenza dei cespugli centristi, sono in fase avanzata. Ma dinanzi all’aut aut, il segretario federale non avrà esitazioni: perché il moderatismo di Tosi (incompatibile con la svolta nazional-lepenista), i suoi legami con Maroni, le ruggini mai sopìte per la corsa alla leadership del centrodestra, lo inducono a considerarne l’uscita dalla Lega non un rischio ma una soluzione. Che val bene un tributo elettorale, fosse anche Palazzo Balbi.