Video pedopornografici, arrestato cinquantenne di San Donà
SAN DONÁ. La polizia postale lo ha incastrato: prima lo avrebbe “pizzicato” in rete, quindi con la perquisizione ha raccolto le prove. È finito in manette il 48enne di San Donà, Massimo Burato: è agli arresti domiciliari per detenzione di materiale pedopornografico. Il pubblico ministero di Venezia Rosa Liistro gli ha contestato di aver detenuto materiale pornografico prodotto attraverso lo sfruttamento sessuale di minori e ora si trova agli arresti domiciliari. Il giudice lagunare Barbara Lancieri lo sentirà alla presenza del suo avvocato difensore domani, giorno in cui l’indagato potrà fornire le sue spiegazioni e difendersi.
È in rete che gli investigatori della Postale hanno cominciato ad accumulare sospetti su Burato, che inizialmente non conoscevano con la sua vera identità, visto che chi viaggia in quei siti lo fa con uno pseudonimo proprio per non farsi riconoscere e in modo che non si possa risalire a lui facilmente. La polizia postale, invece, è riuscita a capire chi si nascondeva dietro a quel nick name che era interessato soprattutto a immagini e video con minorenni protagonisti di rapporti sessuali. La perquisizione in casa sua e soprattutto del suo computer ha fatto il resto: migliaia di video pornografici, ma soprattutto 500 file e 1.200 immagini con minorenni ripresi mentre hanno rapporti sessuali con adulti. Uno sterminato archivio di aberrazioni dove non c’è soltanto una realtà virtuale, ma i video e le fotografie sono anche riprese di situazioni realmente accadute, con ragazzi e ragazze che sono stati costretti e pagati per fornire prestazioni sessuali pur essendo minorenni.
Burato non è stato ancora condannato, domani ha la possibilità di difendersi, di spiegare perché teneva in casa e nel suo computer quell’orribile archivio . Solitamente, però, coloro che vengono scoperti grazie alla rete preferiscono evitare di rispondere alle domande, preferiscono trincerarsi dietro alla possibilità che il codice concede a tutti gli indagati, quella di tacere. E, quando arriva il momento di chiudere l’indagine, i loro difensori cercano l’accordo con il pubblico ministero in modo da patteggiare la pena, da uscire dal processo con una sentenza inferiore ai due anni di reclusione, evitando così di finire ancora in carcere o ai domiciliari.
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