Via Fogazzaro, Moschea verso la chiusura
MESTRE. «Non so cosa dire, mi sento colpevole. Non c’entro nulla io con quanto sta accadendo, così come non c’entra chi prega qui, ma mi sento egualmente colpevole». Kamrul Syed, il portavoce della comunità bengalese di via Fogazzaro, a Mestre, si dice sconvolto. Giovedì, non appena si era diffusa la notizia che una cellula jihadista era stata arrestata e che si trattava di ragazzi del Kosovo, non aveva nascosto di conoscerli, almeno uno tra loro. I musulmani lavorano a Venezia e pregano in terraferma, nelle sale affittate dai centri culturali islamici. Nella moschea di via Fogazzaro si ritrovano a pregare per l’80 per cento bengalesi, poi c’è una fetta di cui fanno parte credenti di altre nazionalità, tra cui il Kosovo. Diversi abitano in zona stazione e fanno riferimento al market “Kosova” di via Trento. «Non mi aspettavo una cosa del genere», prosegue, «soprattutto dai giovani, abbiamo paura per i nostri figli, per le frequentazioni che potrebbero avere fuori casa».
Ieri mattina il clima era teso in via Fogazzaro. Venerdì è il giorno di preghiera nella sala al piano terra del condominio residenziale. Sotto i musulmani riuniti a pregare verso la Mecca, sopra, in un appartamento, il comitato impegnato a scrivere l’ennesimo esposto contro la moschea e la richiesta perentoria al comune, di chiuderlo una volta per tutte. Tra i fedeli un ragazzo che avrà avuto vent’anni, poco più. Ammette timidamente di essere del Kosovo. «Prego qui», dice, «abito vicino. Uno dei giovani arrestati lo conoscevo, ma non lo vedevo sempre». Poi, quando capisce di essere al centro dell’attenzione, se ne va.
Ieri gli agenti della polizia municipale hanno effettuato un controllo dei locali della sala, perché scadeva la proroga per sanare deficit di destinazione d’uso e abusi edilizi precedentemente accertati. Il centro, ora, rischia grosso. Può chiudere.
I vigili hanno fatto il verbale, trasmesso agli uffici. Nel pomeriggio la comunità ha fatto sparire dei condizionatori. «Uno dei kosovari arrestati l’ho visto, ma non ricordo dove», prosegue Kamrul, «ma penso non verranno più, hanno preso paura. Noi non chiediamo la carta d’identità né la nazionalità a chi viene a pregare». Kamrul sta preparando i documenti da presentare in extremis ai vigili per scongiurare la chiusura. L’imam, Mohammad Anwar Hadamalikan, 35 anni, faccia pulita, non parla bene l’italiano ed è arrivato da un paio di mesi da Crotone. «Sono contro la guerra e la violenza», si limita a dire. Racconta di sua moglie, delle sue peripezie. Mostra il suo permesso di soggiorno per motivi umanitari.
«Se non potremo più venire qui, andremo a pregare in strada o nei parchi», aggiunge Kamrul, «nell’area verde di via Sernaglia o da qualche altra parte».
Il comitato Cmp, che da un anno si batte per la chiusura della sala, torna a denunciarne l’illegalità con un esposto alle autorità: «Se fosse un centro culturale come la comunità ha dichiarato sin dall’inizio, per aprire i battenti in un negozio di un condominio avrebbe dovuto essere riservato solo agli iscritti, non a fedeli di altre nazionalità». «Sono stati eseguiti gli accertamenti e redatti i verbali», commenta l’assessore comunale alla Sicurezza, Giorgio d’Este, «è un momento doppiamente delicato e la situazione va trattata di conseguenza valutando il quadro d’insieme. Cercheremo di capire cos’è stato riscontrato, chiaro che in ordine a ciò ci saranno eventuali provvedimenti. Il comandante farà le sue valutazioni».
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