Venezia, poliziotto licenziato perché vestiva da donna: ricorso accolto dal Tar
VENEZIA. La Polizia di Stato lo aveva allontanato perché riteneva gravemente pregiudizievole per il decoro del Corpo quel suo vestirsi nel tempo libero da donna, tacchi alti, minigonna, colori accesi, una volta tolta la divisa maschile da ispettore della Polpost di Venezia, andando a spasso per quelle calli di Venezia dove abitava, ma anche dove prestava servizio, conosciuto da molti.
Sono passati sette anni da quando - nel 2007 - il Consiglio di Stato diede ragione al ministero dell’Interno, mettendolo alla porta. Ora, quegli stessi giudici amministrativi che allora lo “licenziarono”, facendolo scivolare nel baratro di una vita di estrema difficoltà (oggi 53enne, vive insieme agli anziani genitori malati, con la loro pensione sociale) riaprono la porta alle speranze di Giorgio Asti di tornare in Polizia.
Nei giorni scorsi, infatti, Il Tar del Veneto ha accolto l'ultimo ricorso presentato dai suoi nuovi legali, gli avvocati Alfredo Auciello e Giacomo Nordio, che hanno impugnato il diniego opposto dalla Polizia alla richiesta di riapertura del procedimento disciplinare, presentata da Asti nel 2013. I giudici hanno ora dichiarato illegittimo quel “no”, accogliendo la tesi difensiva, che sia stato un parere viziato da «eccesso di potere, illogicità della motivazione, travisamento ed erronea valutazione dei fatti»: fatti che - si legge - raccontano come Giorgio Asti fosse soggetto a una patologia e di questa si dovesse tenere conto prima di cacciarlo dal corpo.
Come è andata lo spiega il suo legale. «Anche se questa sentenza non lo riammette per ora in servizio, ma ordina la riapertura del procedimento disciplinare», commenta Auciello, «si tratta di una decisione importantissima, che - finalmente - cambia del tutto il punto di vista anche giuridico rispetto alle persone transgender, che vanno assistite e non escluse: una sentenza “laica”». «Asti, all’epoca, era sicuramente un esibizionista, ma si trattava di un uomo con una patologia riconosciuta dalla letteratura scientifica come trasgender, si tratti di travestiti, che mantengono la loro identità maschile pur vestendosi da donna, o transessuali, che possono portare a decidere di cambiare genere rispetto quello all’anagrafe», prosegue il legale, «abbiamo portato molta documentazione sul tema e anche certificati medici specifici sulla posizione di Asti, che ha visto la sua vita stravolta dalla porta in faccia ricevuta dalla Polizia: chi ti dà un lavoro quando scopre un precedente così? Invece, era una persona che andava assistita, seguita, aiutata principalmente, non licenziata e lasciata sola. Inoltre c’è anche una forma di discriminazione: il regolamento di Polizia non ha recepito la direttiva europea contro le discriminazioni per sesso o per scelta sessuale».
Contro la classificazione dell’essere transgender come patologia si sta battendo Vladimir Luxuria, testimonial della campagna “Io non sono malata”: posizione ancora minoritaria all’interno delle associazioni dei diritti Lgtb, perché questa classificazione permette la costosa assistenza sanitaria in carico al servizio pubblico per il cambio di genere. Il Mit (Movimento identità transessuale) ha invece lanciato la campagna “un altro genere è possibile” per ottenere il cambio di nome e sesso senza intervento chirurgico.
Il caso di Giorgio Asti aveva fatto molto discutere: per i giudici amministrativi del 2007, il capo della Polizia aveva avuto tutti i motivi per firmare - nell’aprile 2006 - la destituizione immediata dal servizio dell’allora sovrintendente in forze alla Questura di Venezia. I giudici d’appello - come già quelli del Tar del Veneto, prima di loro - avevano stigmatizzato con parole molte ferme quel «passeggiare per strade centrali e affollate di Venezia e Mestre vestito con abiti femminili particolarmente vistosi per foggia e colori, riconosciuto da diversi colleghi».
Avevano bollato quello di Asti come «un comportamento palesemente idoneo a incidere sulla reputazione del poliziotto, tale di rischiare di minare la fiducia di cui egli gode presso la popolazione» e i colleghi. Il tutto - evidenziavano - «per motivi egoistici e, sostanzialmente, futili (“per assecondare la propria natura estrosa e anticonformista”), in tal modo confermando la propria trascuratezza nel salvaguardare un bene prezioso per la propria attività di poliziotto, quale la credibilità».
Una sentenza durissima rovesciata, ora, dalla nuova decisione dei giudici del Tar, che accolgono però la tesi della difesa, laddove il collegio “rileva” come nel diniego di riaprire l’istruttoria disciplinare non si faccia alcun riferimento alla documentazione medica che attesta lo stato di transgender dell’uomo. «La strada è lunga», conclude l’avvocato, «ma è un diritto della persona non venire discriminata, ma sostenuta. Quest’uomo - che oggi pure ha fatto un percorso che l’ha portato a prendere coscienza di sé, superando certi atteggiamenti esibizionistici di allora - ha avuto l’esistenza distrutta da una valutazione fatta su pregiudizi, senza tenere conto della realtà». Una domanda sorge spontanea: può un corpo di polizia che mantiene in servizio agenti condannati a tre anni e sei mesi per la morte di Federico Aldrovandi per “eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi”, cacciare un poliziotto travestito fuori dall’orario di servizio?
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