Venezia, la moschea che non c'è diventa un film
VENEZIA. «Se puoi aprire un nodo con le mani, non farlo con i denti». È giovane e inesperto, l’imam afghano Saladino, chiamato a risolvere i problemi di una pacifica e un po’ scapestrata comunità islamica, rimasta senza moschea perché una bella parrucchiera (musulmana) ha trasformato i locali in un salone di bellezza unisex. Dai testi sacri pesca soluzioni improbabili, lapidare l’infedele per esempio. Ma Saladino ogni tanto trova dentro di sé lampi di saggezza. Come quando deve prendere atto che «l’Occidente è molto strano, ogni cosa semplice diventa complicata qui». Qui è Venezia, porta verso l’Oriente, luogo di incroci che a volte sono incontri, altre volte scontri. La differenza, come sempre, è una questione di velocità. Fermarsi abbastanza per conoscere - e anche per sorridere delle differenze - è un trucco che funziona.
Senza pretese educative, ma con un’ironia e una leggerezza che dice di aver imparato dal cinema italiano, il regista curdo Fariborz Kamkari (quello de “I Fiori di Kirkuk”) suggerisce di cambiare punto di vista, quando si guarda agli immigrati. Il suo “Pitza e Datteri” - presentato in anteprima ieri alla Casa del cinema e da oggi in 61 sale - pur girato due anni fa, si presenta clamorosamente puntuale all’appuntamento con certi temi di stretta attualità, a cominciare dalla polemica sulla chiesa sconsacrata trasformata in moschea nel nome dell’arte (ne parliamo in un pezzo a parte, qui sotto), ma anche con dati di fatto come la perdurante assenza di un luogo di preghiera per i musulmani. La storia, scritta con Antonio Leotti, sbriciola un sacco di luoghi comuni e, pur senza negare la complessità dei problemi, offre una visione buffa di certi fantasmi che agitano l’Occidente, l’Italia, il Veneto. Tutto il film è girato in una Venezia bellissima e largamente sconosciuta ai più. C’è tanta acqua e l’impatto sarà uno shock per l’Imam arrivato dal deserto, che si immergerà nel fluido come nella cultura occidentale, sempre meno prudente, sempre meno sicuro del proprio radicalismo. C’è Ca’ Zenobio degli Armeni, casa di Bepi (Giuseppe Battiston), veneziano che si è convertito all’Islam dopo aver perso tutto, a cominciare dal padre, teleimbonitore fuggito in Uruguay lasciando solo debiti. Ci sono lo squero di San Trovaso e la libreria Acqua Alta e l’Arsenale antico e i bacini di carenaggio, dove la comunità islamica si ritrova a pregare, prima di dover ammettere che così - senza una moschea - proprio non si può. C’è anche la scala Contarini del Bovolo, c’è il Ghetto, c’è Dorsoduro, c’è Rialto - ovviamente - e c’è la Scuola Grande della Misericordia, ma questa è già una parte della storia che non si deve raccontare, perché ha a che fare con il finale a sorpresa, lieto ma non troppo e con una punta di cattiveria che il regista non ha voluto controllare. Il film ha la sua forza nell’equilibrio tra ironia e provocazione, tra realismo e incanto. E ancora di più nella capacità di sorprendere: parte sui binari dei clichés e poi li ribalta, perché sono i protagonisti a mutare, avvalorando la convinzione di Kamkari: «Sono convinto che una cultura moderna, laica e musulmana, esista e si svilupperà attraverso il confronto con il modello culturale europeo». E magari saranno le donne ad aprire la strada. Quelle di Pitza e Datteri abbattono recinti e conquistano libertà. «Ed è quello che sta succedendo anche in Iran», dice il regista. «Il fatto è che nessuno racconta questa rivoluzione silenziosa, nessuno si ferma abbastanza». Agli incroci si tira dritto, così sono più gli scontri che gli incontri.
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