Venezia, i vicini: «Gentili e palestrati. Ma vivevamo accanto ai kamikaze»

Ecco come si comportavano i quattro aspiranti terroristi arrestati. Tutto normale fino al blitz. «Ho aperto la porta e mi sono trovato faccia a faccia con agenti mascherati che mi hanno intimato: "Torni dentro"». Ma i connazionali avevano già dei dubbi
Jihad a Venezia, ecco il covo degli aspiranti kamikaze
VENEZIA. Un piano diabolico per guadagnarsi il paradiso. Ieri mattina la città si è svegliata scoprendo di avere in seno un covo di aspiranti kamikaze camuffati da camerieri. I due blitz, uno in Corte de le Colonne e l’altro in calle Rio Terà de la Mandola, sono durati una manciata di secondi.
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Come ombre.  Nessuno dei vicini si è accorto di nulla, eccetto un signore che ha finito tardi di lavorare e si è ritrovato ad assistere all’agguato al covo vicino al Cinema Rossini, nell’appartamento dove il gruppo pianificava l’attentato. È qui che le forze dell’ordine sono entrate facendo saltare la porta. L’interno di quello che rimane della stanza denota un arredamento scarno: un tavolino con dei fiori freschi, qualche sedia, un grande frigo, una cucina, pareti vecchie, tazzine e piattini ordinati, dei faldoni di carta per terra con la scritta “Output” e tante spine e polistirolo sparse nel pavimento. 
 
L’amministratore. Non si sa con precisione quanti abitassero qui o se le case fossero usate a rotazione da chi ne aveva bisogno. Nella corte de le Colonne il contratto è intestato a Fisnik Bekaj che a sua volte risulta residente in Via Fratelli Bandiera 68 a Marghera, altro posto setacciato dalle forze dell’ordine. «Ho la finestra che dà sulle scale», racconta l’amministratore di condominio della corte de le Colonne Angelo Melandri. «Mi sono svegliato perché ho visto la luce che si accendeva e spegneva. Ho pensato che forse c’era un guasto, ma quando ho aperto la porta ho visto poliziotti e carabinieri con il passamontagna che mi hanno detto di rientrare subito. Pensavo fosse qualcosa legato alla droga. Poi ho visto solo le ombre di persone scendere le scale».
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Ancora tre mesi. A quanto risulta, sembra che il gruppo vivesse stipato qui al quarto piano, in un appartamento molto piccolo di proprietà di milanesi, trovato tramite agenzia. La porta in questo caso è intatta e non ci sono nemmeno i sigilli. Il contratto è dal primo luglio 2016 al 30 giugno 2017: quindi ancora tre mesi per l’attentato? Tre lavoravano in ristoranti della zona come camerieri e uno in una pizza al taglio di fianco alla Basilica.
 
Lavoro.  Ieri i ristoratori non hanno voluto dire molto, se non che erano insospettabili. Fisnik diceva che aveva un passato da pugile e si fermava spesso a prendere un caffè con i colleghi a fine turno, mentre Arjan era arrivato da minore dieci anni fa a Venezia ed era stato subito accolto in un ristorante dove ancora oggi lavorava. I ristoratori lo hanno saputo dai media, ma tutti hanno ricevuto poi una visita dalle forze dell’ordine.
 
I vicini.  Una volta diffusa la notizia, è sembrato a tutti che prendesse forma un incubo che nella quotidianità si cerca sempre di reprimere. «Li avevamo in pratica in casa», hanno commentato i vicini di Corte de le Colonne. «Non abbiamo mai avuto nessun problema, a parte il portone che purtroppo è sempre aperto e c’è un via vai di gente». L’edificio, un ex teatro veneziano, ha 13 appartamenti con solo quattro famiglie veneziane che ci vivono. Gli altri sono usati come spogliatoi per un ristorante vicino, un paio per affitti turistici, alcuni in restauro, uno vuoto con proprietari romani e, infine, quello dei kosovari. I ragazzi qui non avevano mai avuto problemi con nessuno. Eccetto questo di loro si sa poco, se non che scendevano sempre le scale di corsa e che non disturbavano, ma se il posto fosse frequentato anche da altri non si sa.
«Pazzi neutralizzati dalla gente»
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Bravi, gentili e palestrati.  «C’è sempre la porta aperta», dice una donna che vive all’interno «Più volte ho detto che non mi va perché c’è sempre gente che entra ed esce e non si sa mai chi sono». In effetti la corte si trova in un punto strategico. È in Frezzeria nel cuore di San Marco, ma nello stesso tempo è imbucata. Gli aspiranti kamikaze andavano in palestra, erano gentili con i vicini, bravi al lavoro e cordiali con i colleghi, ma consideravano chi non era musulmano un miscredente da eliminare. Un disprezzo mai esplicitato, ma nemmeno nascosto.
 
I connazionali. «Non erano musulmani moderni», racconta un coetaneo connazionale che li conosceva, «Se mi vedevano bere mi dicevano che non dovevo e uno di loro, tornato da un viaggio all’estero, era diventato molto più rigido». Anche il proprietario di un ristorante dove lavorava il cugino di Arjan Babaj dice di non aver mai avuto problemi. «Se avessero dovuto compiere un attentato», commenta un cameriere, «avrebbero fatto meglio ed essere i più normali possibili».
 
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