Venezia e i canali “proibiti”. Quando il divieto diventa obbligo per sopravvivere
VENEZIA. Niente più kayak; bandite le canoe; fuorilegge le biciclette galleggianti, le jole, i pedalò, persino i gommoni, e tutti quei corpi natanti che, pur galleggiando, non hanno la stazza di un vaporetto, la solidità di un taxi o la linea di una gondola. La resilienza del Canal Grande di Venezia è finita. L’acqua ritornerà padrona di se stessa e di chi sull’acqua ci lavora, si sposta, porta merci, bagagli, turisti, va a scuola, salva vite, spegne incendi.
La forma ludica dell’elemento più accogliente e ambiguo della città terminerà tra qualche settimana, dopo la firma dell’ordinanza che vieta la circolazione di imbarcazioni atipiche e la sua entrata in vigore, verosimilmente verso il 20 agosto. Da quel giorno tutto il circo fluttuante di natanti da spiaggia, da mare, da lago, da parco giochi, con vogatori in piedi, seduti, accosciati, accaldati, dotati di salvagente, caschetto, borraccia, mappa plastificata, come se scendessero le rapide di un fiume, sparirà dallo skyline raso acqua dei palazzi dal ponte di Calatrava a Punta della Dogana.
L’ordinanza è ultimativa, ma non universale. Sette giorni su sette in Canal Grande, dalle 7 alle 17 in altri canali quali il rio dei Greci, di Santa Giustina, della Pietà, di Noale, della Misericordia, negli altri canali dalle 8 alle 15, dove il traffico morde meno, ma l’acqua ha il medesimo colore ingannevole.
Dev’essere l’insipienza di ciò che non si vede a spingere i vogatori, soprattutto nord europei, arrivati in zona con il camper, verso le rive delle fondamenta e mettere in acqua cosine che galleggiano appena, tavole e tavolette di plastica, canoe, due ruote gonfiabili e partire alla volta del ponte di Rialto salvo accorgersi di essere come gatti in autostrada. Non era così cinquant’anni fa, quando nei canali più puliti non c’erano turisti in jole a caccia di selfie memorabili, bensì bambini che si tuffavano, giocavano, si schizzavano lasciando le impronte bagante sui masegni.
Esattamente duecento anni fa, Lord Byron, che era solito fare il bagno nei canali di Venezia come dio l’aveva fatto portandosi appresso i vestiti in una retina, sfidò due amici in una gara di nuoto dal Canal Grande al Lido senza rischiare la leptospirosi nè le eliche di una motonave.
Nei secoli i bagni persero eroicità e romanticismo man mano che il ventre dell’acqua diventava meno lustro. Flotte diverse, multiformi, sempre più imponenti, aggressive, hanno iniziato a solcare i canali, grandi e piccoli, scacciando svaghi da ultimo giorno di scuola, mentre la città si trasformava, dentro e fuori, sopra e sotto.
Il kayak in rio Marin è l’equivalente liquido del pic nic in Piazza San Marco. Racconta la mistificazione di una città dove le grandi masse senza più controllo, mai governate, mai contate, mal educate, travolgono anche quello che non trovano: il buon senso.
Così, quello che altrove è normale, a Venezia assume un carattere speciale. Deve avere una regola; deve sottostare a un obbligo; rischia una sanzione, addirittura il daspo.
Ora tocca ai pedalò. L’inganno è solo questione di tempo. Basterà aspettare il tardo pomeriggio ad accendere una lucina a prua. —
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