Venezia, raddoppiati i casi di Aids: «Il boom dopo la pandemia»

L’allarme del primario di Malattie infettive: «Da un po’ si è abbassata la guardia invece la prevenzione è importante». I 40-50 enni la fascia più esposta al virus

Maria Ducoli
Un test per l'Aids
Un test per l'Aids

 

Se ne parla poco, perché di Hiv oggi non si muore più, eppure il virus circola ancora. E i casi, negli ultimi anni, sono raddoppiati rispetto al periodo pre pandemia. Dalle 20 nuove diagnosi effettuate dall’Usl 3 del 2020, infatti, si è passati a 45 nel corso dello scorso anno. I numeri sono in linea con l’andamento nazionale, con il numero di casi passati da 1.500 durante il Covid a 2.500 una volta terminato l’incubo pandemico.

A confermarlo è il dottor Sandro Panese, primario dei reparti di Malattie infettive degli ospedali di Venezia e Mestre. «Se allora l’incidenza era di 7 casi per 100mila residenti, oggi è scesa a tre. I tempi sono cambiati, così come le terapie che oggi consentono di vivere bene e a lungo».

Chi si ammala oggi

A contrarre il virus, spiega il primario, sono soprattutto uomini eterosessuali, mentre è diminuita la circolazione tra le persone con tossicodipendenza.

«L’aumento dei casi riguarda principalmente la fascia d’età tra i 40 e i 49 anni e la via di trasmissione è sessuale, mentre in passato, quando il virus veniva contratto soprattutto nel mondo della droga, l’età media era più bassa, intorno ai 30 anni». Nel mondo lgbt, invece, c’è più sensibilizzazione su questo tema e, di conseguenza, anche l’attenzione è più alta e dunque c’è più prevenzione .

«Tuttavia, la Regione ha aumentato la profilassi pre esposizione, ovvero la possibilità di assumere un farmaco che riduce il rischio di contrarre l’Hiv prima di esporsi a rapporti potenzialmente a rischio. Si tratta di uno strumento efficace, ma non si deve dimenticare l’uso del preservativo, che protegge anche dalle altre malattie veneree» prosegue Panese.

Le diagnosi

Proprio perché di Aids non si muore più, si sta abbassando la guardia. «Spesso vediamo pazienti che arrivano da noi con un ritardo di qualche anno, abbiamo strumenti straordinariamente efficaci ma la diagnosi precoce resta fondamentale. Non bisogna mai diminuire l’attenzione preventiva e per farlo è necessario abbattere lo stigma, che ancora c’è».

Circa il 40% delle persone infette scopre la propria sieropositività perché manifesta un sintomo: l’Aids, nelle sue forme conclamate, è subdolo perché non ha campanelli d’allarme che lo rendono direttamente riconoscibile, ma chi contrae il virus arriva nei reparti ospedalieri con una compromissione del sistema immunitario che li porta a sviluppare forme di polmonite, infezioni intestinali e cerebrali e alcune tipologie di tumori».

Fondamentale, ancora una volta, la prevenzione e il consiglio del primario a tutte le persone potenzialmente a rischio è quello di effettuare lo screening periodico.

«Si può contattare direttamente il reparto di Malattie infettive per fissare una visita, oppure accedere tramite il medico di base», chiarisce il medico.

Terapie e prospettive

Nel momento in cui, tramite un esame del sangue ad hoc, si certifica la positività, parte la terapia che non ha niente a che vedere con quella del passato.

«Dalle 12 pastiglie al giorno degli anni ‘90, con i vari effetti collaterali conseguenti, oggi se ne prendono al massimo due, che contengono un paio di principi attivi» spiega Panese, sottolineando che, così, migliora sia l’aderenza che la probabilità di successo terapeutico. Si può guarire?

«Se intendiamo la scomparsa del virus dall’organismo, no, magari un giorno la scienza ci arriverà, ma non ora. Le terapie riescono a bloccarlo come se non ci fosse, di conseguenza la terapia antiretrovirale blocca non solo l’avanzamento del virus sulla persona, ma anche la sua trasmissione».

I progressi, infine, hanno fatto aumentare l’aspettativa di vita delle persone sieropositive, oggi quasi alla stregua di quelle sane.

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