Venezia, addio alle botteghe. San Vio "muore per colpa dell'arte"
VENEZIA. San Vio, un deserto senza più neanche un negozio per i residenti. Ha chiuso da poche settimane Franco, l’ultimo luganegher di questa parte ormai esclusiva di Venezia, dove gli alloggi costano più che a San Marco, territorio di caccia di vip e di “consumatori” occasionali di seconde case, ma che ai circa 1200 residenti che ancora resistono non può offrire più nulla sul piano dei servizi essenziali.
Più nulla. «Franco vendeva anche il pane» spiega Antonio Mirra, già consigliere di Municipalità di Forza Italia, trasferitosi alla Giudecca perché l’alloggio a San Vio era ormai al di sopra delle sue possibilità «proprio perché non c’è più da tempo neppure un fornaio. Ora per comprare pane, latte e generi alimentari, chi abita qui deve arrivare al Conad di San Basilio, in fondo alle Zattere o raggiungere Campo Santa Margherita».
Il prossimo. Sta per chiudere, in Salizada San Vio, a poche decine di metri di distanza, anche l’ultimo negozio di scarpe, che è qui da più di cinquant’anni, quello di Gianni Dittura, che ha importato a Venezia le famose “friulane”, le comode pantofole da casa di velluto. «Sarei restato volentieri, anche pagando di più d’affitto» spiega il titolare «ma i proprietari non mi rinnovano il contratto, perché qui aprirà una galleria d’arte».
Morire d'arte. Questa - accanto allo spopolamento che ha colpito anche qui come in tutta Venezia - è stata un’altra delle “maledizioni” di San Vio per i suoi residenti. Il famoso “chilometro dell’arte” - il percorso che dalle Gallerie dell’Accademia arriva alla Fondazione Pinault alla Punta della Dogana, con tappe intermedie, tra le altre, a Palazzo Cini e alla Collezione Guggenheim - magnificato dalle varie Amministrazioni comunali, a cominciare da quella di Massimo Cacciari come un’occasione di rivitalizzazione di questa parte di città, legata proprio al fenomeno artistico. E la rivitalizzazione c’è stata, perché il percorso che va dalla Salizada San Vio alla Salute pullula ormai di gallerie d’arte, negozi di antiquariato o di bigiotteria di lusso. Che però nulla hanno a che vedere con il mantenimento della residenza e anzi hanno contribuito ad accelerare la sua espulsione.
Solo turisti e seconde case. La stessa Guggenheim ha ad esempio allargato i suoi spazi a quasi tutta la fondamenta su cui si affaccia, ma tutti i negozi di vicinato precedenti sono stati appunto chiusi per lasciare spazio alle nuove destinazione di tipo artistico. O per pub, bar o ristoranti. È quelle un tempo tradizionali sono ora diventati di lusso, per la nuova clientela turistica. «Non è stata fatta da nessuna Amministrazione in oltre vent’anni» spiega Mirra «una politica per favorire sul piano fiscale, delle destinazioni d’uso e del calmieramento degli affitti, commercianti e artigiani della zona. E moltissime case restano chiuse perché sono appunto seconde case, usate solo per brevi periodi dell’anno o affittate a loro volta dai proprietari a uso turistico. Altre sono vuote pur appartenendo a enti pubblici o allo stesso Comune».
"Effetto deserto". Vivere qui è diventato sempre più difficile e lo stesso etologo Danilo Mainardi, scomparso pochi giorni fa, che abitava prima proprio nella zona della Salute - si era poi trasferito proprio a Cannaregio, per evitare l’effetto deserto. Che si percepisce subito, tra una galleria d’arte e l’altra.
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