UNA FOTO, UNA STORIA / «Ecco tutti i segreti delle impiraresse»

VENEZIA. In un piccolo laboratorio vestito di drappi rosso damasco, Marisa racconta la storia di Venezia infilando perle grandi quanto la punta di uno spillo.
Ogni centimetro di pianeta, a ben pensare, ha le sue perle. E una delle poche “impiraresse” rimaste attive in laguna racconta di aver scoperto Venezia attraverso le conterie, le murrine, le millefiori, le rosette, le avventurine. Quando si esce dal laboratorio di Marisa Convento, in calle della Mandola, ci si sente quasi in colpa a indossare una collana di perle senza conoscere il loro nome, senza sapere perché qualcuno le ha chiamate così.
Dall’Africa, alle Americhe, all’Asia, le perle veneziane sono sempre state considerate preziose merci di scambio e simboli di regalità. «Ho iniziato a lavorare in proprio come impiraressa a 45 anni, trasformando la passione di una vita in un’attività», racconta Marisa. «Ho aperto il laboratorio nel 2006 e non potevo fare una scelta migliore».
Lì dentro, fra scatole piene di colori, fotografie, libri e fili, c’è un mondo: il suo, ma anche quello di una tradizione antica che continua a vivere nonostante l’invasione della paccottiglia. Marisa, originaria di Marghera e “adottata” da Venezia (come le piace specificare), è sempre stata innamorata delle perle e ne parla come di piccoli tesori che un sapiente universo femminile veneziano custodisce tuttora con cura.
«Ho lavorato a lungo come venditrice di souvenir di qualità, fin dai tempi in cui erano di moda gli oggetti in cuoridoro e le murrine iniziavano a essere apprezzate dai turisti. Ma nulla mi ha mai affascinato quanto le perle».
Marisa affonda la mano nella “sessola”, la tipica scatola di legno delle impiraresse: sembra contenere una finissima polvere rossa. «Polvere? Qui dentro ci sono migliaia di minuscole conterie», spiega. «Ne comprai diversi chili alla fine degli anni Novanta da un’azienda che stava per chiudere: da allora vivo quasi di rendita». «È da quell’acquisto fortunato che, con mia cognata Sandra Scarparo Gritti, ho iniziato a infilare le perle e a voler scoprire di più sull’arte delle impiraresse».
Fino al 1999 - anno in cui fu pubblicato “I fiori di Venezia” di Giovanna Poggi Marchesi - era impossibile trovare pubblicazioni che spiegassero come realizzare fiori e decori con le conterie. Per secoli, fino agli anni Sessanta, la tecnica è stata patrimonio di ragazze e donne di tutte le età che si sorprendevano a infilare le perle lungo le calli, sedute su una sedia con la sessola carica di conterie sulle ginocchia. Ma dopo l’acqua granda del 1966, con lo spopolamento della città che ne seguì e in parallelo all’evoluzione dei costumi e del ruolo femminile, l’arte delle impiraresse perse molte delle sue fedeli fautrici.
«Ho imparato la base dell’arte in modo bizzarro, da un’anziana impiraressa di Venezia che si era trasferita a Padova, nello stesso palazzo in cui abitava mia cognata», racconta Marisa. «Con una fila di conterie in mano, ci disse: “Ascoltate bene perché non ho tempo da perdere con voi”. Dopo pochi minuti avevamo appreso le tre mosse-base per fare il petalo di un fiore».
Tutto il resto è venuto da sé, con la passione e l’esperienza che Marisa Convento ha coltivato anche durante il suo impiego come rivenditrice di tessuti Bevilacqua. Nel suo laboratorio e nelle perle antiche e moderne realizzate con dedizione da “perleri” e “perlere” come Alessia Fuga, da cui Marisa si rifornisce, rivive la Venezia che piace ai veneziani.
«Riuscire a fare questo mestiere nella città del vetro di Murano e delle perle è un privilegio», dice Marisa. «Ma anche una vocazione, una missione e una prova di resistenza che ogni giorno porto avanti credendo che la nostra città abbia bisogno di ricongiungersi con la sua bellezza e la sua storia».
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