Una Biennale bifronte tra emergenze sociali e luna park artistico

Il curatore Ralph Rugoff replica gli stessi nomi ai Giardini e all’Arsenale e i “tempi interessanti” diventano spesso anche molto problematici
epa07556337 A visitor next to an installation by Anicka Yi of South Korea at the 58th International Art Exhibition of the Biennale in Venice, Italy, 08 May 2019. The art event runs from 11 May to 24 November 2019. EPA/Marton Monus HUNGARY OUT
epa07556337 A visitor next to an installation by Anicka Yi of South Korea at the 58th International Art Exhibition of the Biennale in Venice, Italy, 08 May 2019. The art event runs from 11 May to 24 November 2019. EPA/Marton Monus HUNGARY OUT

VENEZIA. È una mostra bifronte “May you live in interesting times” – “Che tu possa vivere in tempi interessanti”, citando un antico detto cinese, che cinese non è – la nuova edizione della Biennale Internazionale d’Arti Visive di Venezia, curata dal critico e gallerista newyorkese Ralph Rugoff, che ieri ha cominciato a svelare la sua identità tra i Giardini e l’Arsenale.

Un doppio volto legato non solo alla scelta di Rugoff di chiedere agli artisti selezionati – solo 79 in tutto – di “sdoppiarsi”, presentando opere diverse ai Giardini e all’Arsenale. Ma anche all’identità stessa dell’esposizione che da una parte guarda fortemente al sociale e a temi come l’emigrazione, la discriminazione razziale e sessuale, i cambiamenti climatici, con un’ottica quasi post-sessantottina nel quasi cinquantenario del monimento di protesta.

E dall’altra invece indulge al kitsch artistico senza risparmiarsi nulla. Dalla mucca meccanica che gira sulle ruote del cinese Nabuqi, al gigantesco robot, “spazzino” di una sostanza simile al sangue di altri due artisti cinesi come Sun Yuan e Peng Yu. Posto proprio di fronte – nella stessa sala – al muro di cemento riprodotto dalla messicana Teresa Margolles, che è quello di fronte al quale, nella località di Ciudad Juàres, si è svolto il regolamento di conti tra narcotrafficanti costato la vita a quattro persone.

Questo doppio filo tra impegno sociale – testimoniato anche dal barcone affondato e costato alla vita a 700 migranti nel canale di SicilIa e ora “parcheggiato” dopo il ripescaggio dall’artista svizzero Cristoph Buchel di fronte al bar che si affaccia sul bacino dell’Arsenale – e luna park dell’arte corre lungo tutta l’esposizione, con esiti alterni nella visione offerta al visitatore, necessariamente un po’ spaesato. Perché in fondo le opere degli stessi artisti esposte nei due luoghi deputati della Biennale non risultano poi – comprensibilmente – così diverse.

Anche quando sono di grande qualità, come quella di una delle presenze sicuramente più interessanti di questa Biennale come l’artista etiope Julie Mehretu i cui grandi teleri di acrilico e inchiostro colpiscono sia ai Giardini, sia all’Arsenale, per l’elegante intrico di linee sfocate, quasi un nuovo ed aereo alfabeto pittorico.

La pittura è sicuramente uno dei grandi ritorni di questa Biennale. A volte con esiti interessanti come nel caso – oltre che di Merethu – di un altro pittore africano come il nigeriano Njikeda Akunyili Crosby con una fresca rappresentazione figurativa sulla propria identità nazionale. Ma anche artisti come Otobong Nkanga o Michael Armitage giustificano la presenza di tanta pittura in questa mostra, anche se non sempre della stessa qualità.

Lara Favaretto – che assieme a Ludovica Carbotta rappresenta in questa Biennale la ricerca artistica italiana – avvolge l’esterno del Padiglione Centrale con un denso fumo, quasi una metafora della mostra di Rugoff, che non offre volutamente certezze, ma piuttosto suggerimenti, spunti di riflessione.

Un simbolo di questa ambiguità può essere rappresentato dalle opere dell’artista giapponese Mary Katayama, che propone le sue patinate immagine fotografiche in lussuose ambientazioni di moda, mostrandosi con le sue gambe mozzate – amputate da bambina per una rara malattia genetica.

I “tempi interessanti” diventano perciò necessariamente problematici e una buona indicazione di viaggio per viverli è allora quella di andare a cercare, nella massa delle proposte, la qualità. Quella ad esempio di un vecchio Leone – quest’anno d’Oro alla carriera qui alla Biennale – come lo statunitense Jimmie Durham, da sempre affascinato dalla cultura degli Indiani d’America, anche qui riproposta installazione in teschio di bue muschiato, vetro di Murano – un omaggio a Venezia – legno e tessuti su un’impalcatura d’acciaio all’Arsenale, mentre ai Giardini “espone” una lastra di marmo serpentino.

Ma anche quella della francese Dominique Gonzalez-Foerster con il suo diorama che si rifà alle “Cronache marziane” di ray Bradbury per offrirci una sua evocativa visione del Pianeta Rosso dietro una teca, come nei Musei di storia naturale di tradizione americana. Ma tra le installazioni-ragnatela di Tomàs Saraceno, e l’astronauta migrante del turco Halil Altindere c’è, naturalmente, spazio per tutto. Come ogni due anni alla Biennale. —

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia