Un progetto per far rinascere lo squero di Sant’Isepo a Venezia

VENEZIA. Recuperare uno squero per rilanciare un sestiere e una città intera, insieme alle sue arti e alle sue tradizioni. C’è tutto questo dietro al progetto per il complesso degli squeri di Sant’Isepo, nel cuore di Castello a Venezia.
Presentato nel 2015 dalla storica Società di mutuo soccorso fra carpentieri e calafati fondata nel 1867, a distanza di sei anni quel progetto giace ancora in un cassetto. Pronto, però, ad essere rispolverato in qualsiasi momento e per trasformarsi in un incubatore di attività per Venezia.
Per questo, il gruppo di maggioranza della Municipalità di Venezia ha voluto vedere con i propri occhi le condizioni delle tese ottocentesche destinate alla produzione e alla manutenzione di imbarcazioni, oggi semi-pericolanti e in mezzo a attrezzi del mestiere impolverati e arrugginiti dal tempo.
«Un progetto di recupero», le parole del presidente, Marco Borghi, «non può che essere accolto perché porta beneficio alla città e una prospettiva nuova: scuola, formazione, fruizione dei cittadini, turismo di qualità. Sono gli elementi del futuro della città. Ne parleremo in Municipalità, e ci faremo portavoce con l’amministrazione comunale».
La nuda proprietà del complesso fu donata nel 1878 al comune di Venezia dall’ingegnere navale Giuseppe Tonello, vincolando a favore della società di Mutuo soccorso l’usufrutto perpetuo.
Rimase in funzione fino al 2015, con sei dipendenti poi costretti a chiudere. Oggi ne viene utilizzata una piccola porzione dai due “squerarioli” Marco Bacci e Igor Silvestri (squero “Basi”), i quali proprio in questi giorni stanno completando una gondola, quasi pronta ma già senza proprietario.
Con la crisi di questi mesi, il committente si è tirato indietro. Così, emblema dei tempi che corrono, il simbolo della tradizione lagunare resta chiuso sottochiave.
Tra “squero grando” e “squero picolo”, il complesso di Sant’Isepo occupa circa 800 metri quadri. Lungo il lato sud si sviluppa invece il “tezon grando” ottocentesco. Un complesso ideale, secondo il presidente della Società Cesare Peris, per “valorizzare gli antichi mestieri tradizionali veneziani dell’acqua”.
Puntando a coinvolgere residenti (vecchi e nuovi), attività artigianali, studenti e turisti, il progetto è articolato in più parti. Secondo i piani, i 200 metri quadri del “tezon grando” manterrebbero la sua vocazione di cantiere e, quindi, di attività in grado di garantire reddito. Il “tezon delle arti” sarebbe invece il luogo dove assistere alle abilità manuali del lavoro artigiano (squerarol, remer, forcoler). Al suo interno, anche uno spazio per una scuola di voga alla veneta. La corte interna, infine, sarebbe destinata a luogo per attività culturali e conviviali. Il tutto affidato in gestione a una nuova società di servizi che si occupi delle varie attività.
Costo dell’operazione? Due milioni di euro.
«Soldi che la Società di Mutuo soccorso, che non ha fini di lucro e non persegue utili di gestione, non è in grado di reperire», aggiunge Peris. Nel 2019 era stato avviato anche un crowdfunding collegato alla cooperativa FairB&B, piattaforma di prenotazioni solidale. Ma poi, pioggia sul bagnato, è arrivata la pandemia.
«L’operazione», conclude il presidente della Società, «è destinata ad autofinanziarsi con gli introiti che arriveranno dai canoni delle attività. Il Comune non ha dato ancora nessun tipo di disponibilità a partecipare al recupero di un immobile comunque pubblico, sebbene sia stata offerta una co-partecipazione nell’uso degli spazi».
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La scheda. Mezzo secolo fa erano venti, ne sono rimasti appena sei
In città ne sono rimasti pochi, si contano sulle dita di una mano. Ma a Venezia la tradizione degli squeri resiste, nonostante tutto. Se ne contano sei al momento in città, depositari di una tradizione secolare espressione di un’arte e di una cultura da custodire e valorizzare che affonda le radici nel secoli e nel legame di Venezia con il legno delle Dolomiti.
Erano almeno una ventina fino agli anni ’50, prima dell’inizio di un lento declino. Chi oggi sopravvive è lo squero di San Pietro di Castello e di Nicolò Zen, in calle Salamon. Alla Giudecca, c’è lo squero di Gianfranco Vianello detto “Crea” (campione del remo, 8 storiche in bacheca). Sempre alla Giudecca, lo squero Dei Rossi alla Giudecca è stato aperto nel 1985 quando Stefano Costantini e Roberto Dei Rossi vi cominciarono a lavorare, sotto la guida di Corrado Costantini detto “Buranello”.
È dotato di due ampi tesoni e del tradizionale scalo d’accesso al canale. A Dorsoduro, è ancora in attività lo squero di San Trovaso, gestito dalla cooperativa Daniele Manin fin dagli anni ’50 dove negli anni più recenti hanno lavorato Gastone Nardo, discepolo dei Tramontin, e il figlio. Pezzo di storia cittadina è poi lo squero Tramontin, in rio de l’Avogaria, fondato nel 1884. Dopo la scomparsa di Roberto Tramontin nel novembre 2018, ora è gestito dalle figlie Elena e Elisabetta.
Ma accanto a questi sei squeri, è nutrita anche la pattuglia di allievi e apprendisti cresciuti nel corso dei decenni. Oltre a Silvia Scaramuzza, prima donna squerariola che ora lavora da Crea alla Giudecca, vale citare altri due casi alla ricerca ancora oggi di uno spazio in città dove continuare la tradizione del legno.
Matteo Tamassia, fiorentino di nascita e veneziano d’adozione da trent’anni in laguna, dopo un lungo apprendistato dalle sue mani sono nate barche a vela, sanpierote, gondolini e naturalmente gondole, mascherete. Insegnante fino al 2011 della scuola per maestri d’ascia voluta dalla Confartigianato, all’attivo vanta anche il restauro di vecchie e affascinanti lance.
C’è poi Giovanni Da Ponte, che dopo il diploma alla scuola della Confartigianato, ha lavorato per il cantiere Serenella e poi per il cantiere Vento di Venezia per sei anni. Fino al 2012, anno in cui ha deciso di mettersi in proprio tra mille difficoltà. In quindici anni di mestiere ha realizzato una quindicina di barche nuove e ne ha restaurate oltre un centinaio. —
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