Tre morti per amianto a Porto Marghera, si rafforza l’accusa
PORTO MARGHERA. Ce n’era ovunque nelle fabbriche. All’epoca veniva considerato il miglior materiale per coibentare. Sui tubi, sulle caldaie, sui macchinari. Era usato anche per le costruzioni, mescolato al cemento. Ce n’era così tanto che si sgretolava e sul pavimento andava a depositarsi una polvere che agli occhi degli operai pareva neve.
Le conseguenze di quei decenni al lavoro a strettissimo contatto con questo materiale cancerogeno, senza tute, mascherine e alcun altro dispositivo di protezione, si vedono ora e si vedranno nel prossimo futuro. Il Veneziano sta pagando un tributo pesantissimo in questo senso, tra morti e malati. Le conseguenze sui danni alla salute a causa dell’amianto, dicono gli esperti, erano noti prima degli anni Sessanta (la normativa in materia è datata 1955), ma fino agli anni Ottanta i datori di lavoro hanno fatto poco o nulla.
E così l’amianto si è insinuato all’epoca negli organismi degli operai, andando ad attaccare i polmoni, e là è rimasto silente. Si chiama periodo di latenza ed è il tempo che intercorre tra l’inizio dello sviluppo e la manifestazione della malattia. Lo studio del professor Selikoff ha stabilito una latenza media di 33,8 anni. Ma si va da un minimo di 15 anni a un massimo di 60-70.
Lunedì prossimo, anni dopo l’ultimo cartellino timbrato dai tre operai in questione, arriverà davanti alla giudice per l’udienza preliminare di Venezia, Maria Luisa Materia, un procedimento che rappresenta a suo modo un caso di scuola. Sul banco degli imputati, Nerio Tabacchi, 84 anni, originario di Santo Stefano di Cadore e residente a Mestre, dalla metà degli anni Sessanta al 1985 a capo della Centrale termoelettrica dell’Enel a Fusina. Il sostituto procuratore Giorgio Gava è riuscito a mettere assieme tre casi di operai di quello stabilimento morti per patologie polmonari collegate all’amianto, andando in questo modo a rafforzare l’accusa. E così ha chiesto il rinvio a giudizio, su cui dovrà pronunciarsi la giudice, dell’allora direttore per triplice omicidio colposo con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Un caso giudiziario non comune, sulla scia della filosofia che portò, tra gli anni Novanta e i primi Duemila, al maxi processo per le morti al Petrolchimico.
Aveva 79 anni quando è morto uno degli operai della Centrale Enel, il cui caso ora è al centro del procedimento penale. Alle spalle una carriera dal 1962 al 1977 come elettricista manutentore e poi, fino alla pensione nel 1989, come strumentista. La diagnosi di mesotelioma pleurico arriva nel 2012. Si spegnerà a luglio 2015, dopo tre anni di interventi e chemioterapie. La moglie e i figli si costituiranno parte civile nel procedimento contro Tabacchi con l’avvocato Paola Bosio. C’è poi il collega che ha lavorato tra il 1969 e il 1989 come operatore in sala manovre, poi come meccanico e infine come assistente alla programmazione. Anche lui affetto da mesotelioma pleurico, costretto a un calvario breve ma non meno doloroso. Morirà a maggio 2014 a 78 anni.
E ancora la storia del turnista, poi promosso capo turno, in servizio dal 1966 al 1993. Se n’è andato per un tumore polmonare a maggio 2013 a 70 anni. Fino a quando ne aveva avuti 47, aveva fumato e ciò rappresenta una concausa nella malattia, come rilevato in varie sentenze di risarcimento emesse dal giudice del lavoro in casi di fumatori morti per l'amianto. Quando l’esposizione ai due fattori è combinata, il rischio di ammalarsi è molto più alto. Secondo l’accusa, il capo della Centrale Tabacchi avrebbe fatto lavorare i tre operai “in ambiente gravemente contaminato dal deposito e dalla circolazione delle polveri di amianto”, si legge nell’imputazione, disponendo lavorazioni e manutenzioni a stretto contatto con il materiale cancerogeno. Tutto senza aver adottato le misure di sicurezza per contenere l’esposizione all’amianto. E non informando chi stava lavorando, che quel materiale, anni dopo, si sarebbe trasformato in una trappola mortale. —
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia