Trapattoni: «Cina e Africa mi vogliono ma io dico stop»

A spasso con il “Trap” nel centro di San Donà. «A 77 anni non posso più. Il mio erede? Gasperini»
Giovanni Trapattoni
Giovanni Trapattoni
SAN DONÀ DI PIAVE. A spasso con il "Trap". Caso ha voluto che Giovanni Trapattoni ieri sia passato per San Donà, città in cui è nata per un gioco del destino la moglie Paola Miceli. Suo padre era ufficiale medico e prestava infatti servizio sul litorale jesolano. Così ieri mattina è tornata a vedere la città natale, accompagnata dal suo Gianni, dall'amico Guido Sforzin e la moglie Carmen, parenti dell'albergatore Giovanni Tuzzato di Noventa che abitano anche loro a Cusano Milanino, vicini di casa. Una festa per juventini e anche interisti, e poi milanisti. Perché il Trap è patrimonio di tutti. E tutti a scattare selfie con il grande allenatore, compresi il sindaco Andrea Cereser e il vice sindaco Luigi Trevisiol che lo hanno accolto in municipio. Lui ti guarda con gli occhi azzurrissimi e ricorda i primi calci a Cusano dall'alto dei suoi 77 anni di esperienza.
Come ha iniziato mister? «Mi hanno notato perché ero biondino... i primi osservatori che giravano in Lombardia. A volte sono particolari che colpiscono.Ho conosciuto tanti veneti, gente semplice, non troppo smaliziata a differenza nostra. Mi ricordo Stefano Polesel, buranello, così attaccato alla sua terra. Lo avrei voluto con me al Cagliari e ci ho provato in tutti i modi. E Gianfranco Bedin, proprio di San Donà. Erano i tempi della grande Inter. Lui era mediano come me, grande giocatore, c'era un po' di competizione tra noi. Poi mi viene in mente Nereo Rocco che mi chiamava "Gioanin". Che ossessione».
 
Da calciatore ha conosciuto tanti grandi. «Ho avuto la fortuna di giocare con Pelè, Sivori, Eusebio. Ma io avevo un vantaggio: i loro compagni magari non gli passavano la palla perché non l'avrebbero più vista e quelli sarebbero andati via in porta. I miei compagni invece me la passavano sempre».
 
Juve, Milan o Inter? «Beh, io nasco milanista, non posso dimenticarlo. Degli anni della Juve mi viene in mente l'avvocato, che mi chiamava ogni settimana. Grande società e organizzazione. All'Inter ho allenato dei grandi, penso a Rummenigge e soprattutto Brehme: era una macchina da guerra che pochi ricordano o hanno capito. Sono tutte grandi squadre, il campionato è ancora aperto, inizia adesso si può dire, nel momento più difficile della stagione. I miei giovani colleghi di Milan e Inter hanno ancora molto da dire e da fare».
 
Cosa pensa di questo ingresso dei cinesi nelle squadre di Milano? «Hanno un enorme potenziale economico, è innegabile, e tanto entusiasmo e voglia di crescere in quei paesi. Nel calcio sono ancora giovani, ma in futuro potranno fare qualcosa, anche perché sono dei “soldati”, e molto disciplinati. Ma l'Africa secondo me potrà vedere davvero nascere altri campioni, grazie ai loro fisici».
 
Le avevano ancora proposto di allenare delle squadre? «Sì, in Africa, e anche in Cina, ma si trattava di spostarsi per lunghi periodi e non è più semplice per me e mia moglie che mi ha sempre seguito».
 
Com’è cambiato il calcio dai suoi tempi? «Io sono stato tra i primi a esaminare i video delle partite ancora con il super8. Ma ai miei tempi non era tutto e solo tattica, c'era molta intuizione, era importante sviluppare l'istinto e adeguarsi alle situazioni. In Italia siamo ancora i migliori, soprattutto tra gli allenatori. Sono cresciute però le altre nazioni, come la Germania che non ha più solo dei bulldozer in campo».
 
Un suo erede? «Tra gli attuali allenatori vedo molto bene Gasperini».
 
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