Sul Dna dell'omicidio Taffi Pamio è ancora scontro
VENEZIA. Tra i tanti colpi di scena dell’omicidio Taffi Pamio, c’è una costante sostenuta dalla difesa e da esponenti del mondo accademico.
La costante è quella di ribadire che la prova del Dna, usata contro Monica Busetto, non può essere ritenuta una prova certa, quanto neutra e quindi non utilizzabile per condannare la donna.
Busetto, ultimo atto davanti alla Corte. I futili motivi al centro del processo
Tra qualche giorno questa tesi verrà spiegata ancora una volta in un articolo che uscirà sul portale Penale Contemporaneo, a cura di Franco Taroni (perito della Difesa) e Ilaria De March dell’Università di Losanna, di Silvia Bozza di Ca’ Foscari e di Paolo Garbolino di Iuav. Ancora una volta perché già a febbraio gli autori, esclusa De March, avevano sollevato il caso nel saggio “Contaminazioni di un reperto con il Dna. Quando la prova genetica porta direttamente alla condanna”. Il prossimo scritto (“Dna e risultati dissonanti: come valutare congiuntamente gli elementi scientifici di prova”), riprende il precedente, avvallandosi del modello probabilistico noto come Reti Bayesiane.
L’oggetto al centro della questione è una collanina trovata a casa di Busetto che lei afferma di avere avuto da anni, ma di non averla usata da moltissimo tempo. Per l’accusa invece quella collana è stata strappata dalla Busetto dal collo della Taffi Pamio.
Lo scritto degli studiosi parte dalla premessa che il primo laboratorio di Genetica Forense di Padova non ha trovato nessuna traccia di Dna di Taffi Pamio sulla collana, mentre il secondo di Roma ne ha trovata una minima. Com’è possibile? Per la Corte di Assise e la Corte di Assise d’Appello non ci sono dubbi: il secondo laboratorio ha utilizzato una strumentazione diversa (per immersione) che ha consentito di rilevare il Dna, a differenza della strumentazione utilizzata dal primo (per tamponamento).
Nell’articolo non viene contestato il risultato di Roma, ma il fatto che sia stato escluso il primo di Padova. Il modello di probabilità utilizzato è chiamato in causa per dimostrare che esiste un conflitto tra risultati che mina l’attendibilità del prendere come buono solo il risultato di Roma. A questo si aggiungono alcune domande: se la collana è stata davvero strappata, come mai il Dna trovato è pochissimo? Inoltre nell’articolo si rimanda a due aspetti rimasti senza risposta. Il primo è il fatto che nel verbale dell’analisi di Roma la cronologia sui reperti non è chiara (si inizia alle 17 e finisce alle 13, ma di quale giorno) e il secondo che non è stato reso pubblico il margine di errore del laboratorio.
Inoltre non si sa la natura del Dna esaminato (quali cellule) e si ribadisce che nella scena del delitto non si sono trovate tracce della Busetto, né sulla vittima medesima e che le tracce di suole di scarpe trovate nel sangue della casa della vittima non sono della Busetto. —
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia