Suicida in azienda, Inail deve risarcire
Ottiene dal tribunale del Lavoro di Venezia il riconoscimento del diritto al risarcimento previsto per i parenti delle vittime di malattie professionali, per la moglie morta suicida a causa di un forte stress lavorativo. La sentenza è arrivata dopo una causa, lunga tre anni, in cui Sergio Polesel, marito di Sandra Bottacin, l’operaia, che nell’ottobre del 2006, a 52 anni si tolse la vita gettandosi dal tetto dell’azienda dove lavorava, la industria farmaceutica Monico di Campalto, si è battuto con il sostegno dell’associazione Anmil (associazione nazionale lavoratori invalidi e mutilati del lavoro) e dell’associazione Contromobbing di Mestre, con l’assistenza legale dell’avvocato Saveria Aversa. Una causa avviata, dopo l’archiviazione del procedimento penale, contro l’Inail che aveva respinto la richiesta di Polesel di accesso al risarcimento (l’assegno funerario e la rendita ai superstiti) previsto per le vittime del lavoro, sostenendo che lo stress da lavoro non è una malattia professionale inserita nelle tabelle ufficiali. La sentenza del giudice Anna Menegazzo, arrivata lo scorso luglio, rappresenta invece un precedente importante in tema di mobbing. Sancisce che a Polesel il risarcimento va riconosciuto visto che nel corso del dibattimento e dopo le ispezioni dell’Inail, le perizie e le dichiarazioni rese dai testimoni, è emerso che la signora Bottacin «ha sviluppato una malattia avente causa nell’ambiente lavorativo e che da esse è derivata la morte». Il consulente medico legale incaricato dal Tribunale ha ritenuto «con elevata probabilità» che la donna, «avesse sviluppato una psicopatologia di natura depressiva da ricondurre a causa o quantomeno concausa nell’insalubre ambiente lavorativo». La sentenza riporta anche passi della lettera lasciata dalla Bottacin, nello spogliatoio, prima di lanciarsi nel vuoto. Sandra scriveva con caratteri prima grandi, poi sempre più piccoli: «Di quello che è successo alla fine sarà colpa mia, voglio andare via a testa alta come ho sempre sperato». Parole che ancora oggi mettono i brividi a Polesel e a quanti si sono occupati di questo caso. Il marito ha ripercorso la vicenda assieme all’avvocato Aversa, il responsabile cittadino dell’Anmil Lino Ghion, le responsabili dello sportello di “Contromobbing”, Annamaria Buroni e Carla Silvestri e al delegato del sindaco per le tematiche del lavoro, Sebastiano Bonzio. La moglie, ha spiegato Polesel, viveva davvero male la vita lavorativa in una azienda dove il clima si era fatto pesante dopo una inchiesta della magistratura per un errore (denunciato dalla stessa azienda), nella preparazione di flebo, commercializzate con etichette sbagliate. Polesel racconta: «Mia moglie dopo esser stata operata per un tumore al seno nel 2003 era tornata al lavoro ed era stata demansionata. Dal laboratorio era stata spostata a sollevare pesi, nonostante il medico lo avesse vietato. Poi è tornata al laboratorio, perché avevano bisogno della sua esperienza, ma lei raccontava che le cose andavano male e temeva di essere incolpata di qualsiasi errore». In azienda, in caso di errori nella produzione, «scattavano sanzioni per i dipendenti». La sentenza di primo grado ora potrebbe essere impugnata dall’Inail (ci sono sei mesi di tempo) ma l’istituto ha già versato l’assegno funerario, da 1.500 euro ed è in corso il conteggio della somma destinata alla rendita destinata al marito sulla base dei Cud del 2006.
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